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ANNALISA PIRAS - Italia bella, amata e... in coma


La regista presenta a Berlino il suo documentario sul nostro paese. Lo sguardo, un po' abusato, di chi ci vede da fuori sarà presto allargato a tutta l'Europa.


ANNALISA PIRAS - Italia bella, amata e... in coma
Annalisa Piras, regista di "Girlfriend in a Coma"
In occasione della rassegna Alice allo specchio, Annalisa Piras, giornalista e regista italiana, da anni residente a Londra, è giunta a Berlino per promuovere "Girlfriend in a coma".
La incontriamo prima della proiezione.

Qual è stata la motivazione più forte che l'ha spinta a dirigere il documentario?
"La condizione di migrante. Io stessa sono emigrata venti anni fa e sento, in prima persona, il dovere e la necessità di appellarmi a tutti gli italiani che, come me, sono andati via. Provengo della "diaspora" e non potevo non raccontarla. Nel documentario abbiamo dedicato a questi flussi migratori una parte importante per far riflettere, per svegliare la ragazza in coma. Ci rivolgiamo non solo a chi è emigrato, ma anche e, soprattutto, a chi è rimasto, a chi, magari, non ha la possibilità di emigrare".

La macchina da presa ha avuto una prospettiva molto femminile, ma in Italia è come se non fosse stato notato. Il documentario è passato come il film di Emmott. Esterofilia?

"Sì, o, forse, provincialismo. Sono stata obliterata e mi dispiace perché dimostra mancanza di professionalità e accuratezza nel trasmettere informazioni. A questo si aggiunge anche un forte maschilismo, ben radicato nel nostro Paese. I media tradizionali, a differenza del web, hanno trasmesso questa mancanza. Anche questo costituisce uno dei sintomi di questa "Girlfriend in a Coma".

Qual è la soddisfazione più grande che, sino ad ora, "Girlfriend in a coma" le ha regalato?
"Meravigliose e numerose lettere ricevute da giovani, e meno giovani. Alla soddisfazione si è, però, aggiunta l'incapacità di poter rispondere. Non abbiamo una ricetta per svegliare la ragazza. Non possiamo permetterci di dare un consiglio definitivo. Vorremmo che l'attenzione non diminuisse per continuare a parlare, per stimolare questa ragazza. E', forse, questa l'unica terapia che potrà scuotere l'Italia, gli italiani".

La canzone da cui avete tratto il titolo del documentario si conclude con "let me whisper my last goodbyes". Il suo è un addio definitivo o tornerà in Italia?

"Non mi dispiacerebbe, ma credo sia molto improbabile. Rimane la speranza. Le bambine sul ponte, che compaiono alla fine del documentario, rappresentano quella speranza. Sono le mie figlie".

Oltre all'Italia ha voglia, con Emmott, di ampliare la prospettiva?
"Sì, stiamo pensando ad un sequel, ad un'Europa in coma".


Oriana Poeta

01/05/2013, 09:00