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Matteo Rovere: "È un grande onore per me esordire con
un film in concorso ad un festival così importante"


Abbiamo intervistato il regista Matteo Rovere, autore del film "Un Gioco da Ragazze", tratto dall'omonimo romanzo di Andrea Cotti e co-prodotto dalla Colorado Film di Maurizio Totti e da Rai Cinema, in concorso nella sezione Cinema 2008 della 3. Edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.


Matteo Rovere:
Il suo film "Un Gioco da Ragazze" è tratto dall'omonimo romanzo di Andrea Cotti. Come è avvenuto il passaggio dal soggetto alla sceneggiatura?
Matteo Rovere: Dopo aver visto il mio cortometraggio ”Homo Homini Lupus”, interpretato da Filippo Timi e premiato col Nastro d’Argento, Maurizio Totti mi ha proposto con la sua Colorado Film e con Rai Cinema di dar vita ad una rilettura del romanzo "Un Gioco da Ragazze" di Andrea Cotti, convinto che la storia potesse essere nelle mie corde. Ho scritto la sceneggiatura insieme a Teresa Ciabatti e Sandrone Dazieri, cercando di sviluppare quella che mi sembrava la parte più interessante del libro, privilegiando non tanto il versante giallo o “noir”, quanto l’ambientazione in una provincia ricca, distratta ed insensibile a livello emotivo; ho cercato insomma di ripercorrere il vuoto sociale e morale di una certa fascia generazionale. Il film è una sorta di “prequel” del romanzo: ero stato molto impressionato sia da certi recenti episodi di cronaca nera, che hanno visto molti adolescenti protagonisti di situazioni assurdamente violente, uno per tutti il cosiddetto “caso Erika e Omar”, sia dagli ultimi lavori di Gus Van Sant, come “Elephant”, e trovavo interessante analizzare il lato nascosto di quel vuoto sociale e morale che c’è intorno a tanti adolescenti, che oggi hanno un accesso più che facilitato ai contenuti violenti attraverso Internet, la tv e i media in generale. Il film è molto lontano dal romanzo, che però è stata la base di partenza.

Il film mostra delle adolescenti molto "aperte" e prive di inibizioni. Cosa ha voluto rappresentare di questo mondo nella sua pellicola?
Matteo Rovere: Oggi, a volte, gli adulti lasciano ai ragazzi una libertà una volta impensabile, sia in senso stretto che dal punto di vista dei contenuti ai quali questi ultimi possono accedere. L'intelligenza dei giovani cresce freddamente e lucidamente, a discapito delle emozioni vere: e il loro approccio freddo e distaccato verso la violenza deriva da questo vuoto. Mi affascinava nascondermi, mimetizzarmi all’interno della loro vita e del loro mondo e raccontare una certa adolescenza non come vorremmo che fosse, ma come è davvero: più che disinibite le adolescenti del film sono consapevoli di cosa sia il potere, e hanno imparato ad usarlo.
 
Secondo lei che rapporto c'è oggi tra i genitori e gli adolescentii?
Matteo Rovere: La mia non è una generalizzazione, e non vorrei che arrivasse come tale. Il film racconta solo "alcuni" genitori, quelli che lasciano i figli soli più che liberi, in qualsiasi contesto sociale. A volte le famiglie non esercitano mediazioni o filtri tra televisione-baby-sitter e ragazzi, e soprattutto tra questi ultimi e la rete, dove è molto facile trovare video ai quali, ad esempio, io che oggi ho 25 anni non potevo avere accesso. I figli crescono così molto in fretta, dovendosi a volte confrontare con qualcosa di estremo prima ancora di avere l'educazione "emotiva" utile a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
Da un punto di vista stilistico ho cercato un forte realismo proprio per far entrare il pubblico nella storia, cercando di spiazzarlo: è per questo che il film tenta di non dare giudizi, di non stabilire appunto cosa sia giusto e sbagliato in modo definitivo. Questo, per me, è il compito dello spettatore. Mi piacerebbe, ad esempio, che un ragazzo leggesse la storia guidato dalla propria coscienza, prendendo autonomamente posizione rispetto alla durezza e alla crudezza di alcuni adolescenti: non quindi in modo pedissequo, moralista e didascalico, ma rendendosi conto del contesto in cui vive, identificandosi quindi prima, e poi prendendo le distanze.
 
Ci può parlare di come ha scelto le quattro giovani protagoniste del film Chiara Chiti, Desirée Noferini, Nadir Caselli e Chiara Paoli?
Matteo Rovere: Maurizio Totti e il team di Rai Cinema mi hanno sostenuto nell’idea di cercare delle esordienti assolute: non ci interessavano 25enni che facessero finta di essere minorenni, ma persone che fossero davvero molto vicine all’età che raccontiamo, per aiutare lo spettatore ad entrare nella storia.
Dopo un lunghissimo casting abbiamo trovato le protagoniste, tutte alla prima esperienza. Una minuziosa preparazione le ha aiutate ad entrare nella storia, cercando però di non reprimere troppo il loro approccio “reale”, la loro verità. Lavorare con qualcuno che non ha mai recitato è un rischio che ho voluto assumermi, perché ritengo che, in questo caso, renda più forte il film.
Il “media” cinematografico si assottiglia, facendo così diminuire la distanza tra lo spettatore e la vicenda raccontata.

Come ha lavorato sui loro personaggi?
Matteo Rovere: Abbiamo “vestito” l’ultima revisione del film sulle ragazze scelte, cercando di percepire tutte le sfumature emerse dalle prove. In un certo senso abbiamo lavorato sulla “verità” che loro stesse potevano portare nella pellicola: si tratta di attrici, e attori, spesso appunto alla prima esperienza, che non hanno ancora lavorato su un metodo utile a rispettare ogni dettaglio della sceneggiatura. Non ho mai represso troppo questa sorta di “inesperienza”, per cercare di dare al film la cifra stilistica che avevo in mente. C’è stato un lungo lavoro preparatorio, prove full-time per giorni, in modo da far comprendere alle ragazze la natura intima e complessa dei personaggi da portare in scena: ho cercato di fare in modo che -nonostante fossero tutte ben consapevoli di non somigliare ai loro personaggi- avessero una certa conoscenza e consapevolezza della materia da raccontare e -attraverso alcuni miei suggerimenti e stimoli- portassero a galla comunque il loro “materiale” emotivo.

Come ha lavorato sull'immagine del film?
Matteo Rovere: Da un punto di vista stilistico ho cercato un forte realismo. La cinepresa a spalla, disegnata insieme al d.o.p. Arnaldo Catinari, si insinua nella vita delle tre ragazze raccontando quali siano davvero le loro esistenze e le loro regole: ho cercato così, come dicevo, di far entrare il pubblico nel vivo della vicenda raccontata, in modo che fosse poi libero di elaborare un proprio giudizio morale, senza imposizioni da parte degli autori. Mi piacerebbe, ad esempio, che in questo modo uno spettatore giovane leggesse la storia venendo guidato dalla propria coscienza, prendendo autonomamente posizione rispetto alla durezza e alla crudezza di alcuni adolescenti: non quindi in modo pedissequo, moralista e didascalico, ma rendendosi conto del contesto in cui vive, identificandosi quindi prima, e poi prendendo le distanze. Da qui nascono anche le scelte grammaticali, citate in precedenza, che ho ritenuto di adottare.

"Un Gioco da Ragazze" è in concorso alla 3. Edizione del Festival Internazionale di Roma...
Matteo Rovere: È un grande onore per me esordire con un film in concorso ad un festival così importante, lo ritengo un grande risultato, che spero possa aiutare il percorso di questa pellicola.

Come considera il panorama cinematografico italiano del momento?
Matteo Rovere: Forse oggi il primo obiettivo del cinema dovrebbe essere quello di riuscire a sopravvivere, in un mondo dove televisione ed internet stanno svuotando le sale, creando sotto i nostri occhi una generazione che avrà ancor meno interesse nei confronti del cinema rispetto ad ora. Purtroppo la vedo un po’ nera: mi pare che anche al mondo politico non interessi molto la crescita di una cinematografia nazionale né, cosa ancora più grave, di un pubblico che abbia la cultura e la voglia di uscire di casa per andare al cinema. Il cinema italiano ottiene spesso grandi risultati, pensiamo a Cannes, pur non disponendo della protezione che, ad esempio, hanno i film francesi.

21/10/2008, 08:00

Simone Pinchiorri