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Intervista al regista ed attore Sergio
Rubini sul film "Colpo d'Occhio"


Intervista al regista ed attore Sergio Rubini sul film
Come scegli i progetti? Come nasce l’idea del film?
Sergio Rubini: Ogni volta è una storia diversa, una partenza diversa. Ho girato più pellicole nella mia terra d’origine, attingendo alla mia biografia e miscelandola poi con gli incontri, le letture fatte altrove. In questo caso, invece, è nato tutto grazie a Scamarcio e alla simpatia che sapevo nutriva nei miei confronti. Lo spunto stesso del film è nato a casa mia, mentre aspettavo di incontrarlo. Cosa succederebbe, mi sono chiesto nell’attesa di Riccardo, se anziché imbattersi in un padre, o comunque un fratello maggiore, una guida, un riferimento, questo giovane si ritrovasse di fronte uno che finge di essere tutto questo ma che di fatto, per invidia, rivalsa -dovute alla differenza di età, per tutto ciò che l’altro ha e che a lui manca - lo ammazzerebbe? E come andrebbe viceversa se io non sapessi, immaginassi affatto che dietro quel giovane sano, fresco si nascondesse uno che vuole solo portarmi via tutto, tutto fino agli amori più cari della mia vita? Il cinema consente di mettere in scena anche pensieri negativi - magari così uno evita di portarseli appresso nella vita…

Quand’è che senti che la storia funziona? Quando la scrivi? oppure quando la giri?
Sergio Rubini: Di sicuro nella fase di scrittura. E’ allora che la storia prende corpo, allora che il racconto rivela la sua forza e i suoi punti deboli. A volte bisogna avere anche la capacità di fermarsi. Se si incontrano ostacoli saldi forse si tratta di un percorso sbagliato e bisogna avere la forza di ricominciare daccapo.
Poi, nel corso della messa in scena, tutto va incontro ad una verifica ulteriore, spietata, se ci sono degli errori diventano tangibili. Ecco perché, con gli attori, non si può fare a meno di provare e provare e riprovare…

L’idea di ambientare un film nel mondo dell’arte?
Sergio Rubini: Sono approdato all’arte contemporanea per strani percorsi. L’idea iniziale era di fare un film che raccontasse il conflitto tra un uomo maturo e un giovane, tra un intellettuale, un ragionatore, e un istintivo, e così sono finito a un critico e a un artista; ma sulle prime pensavo a un musicista. È stato Scamarcio che mi ha fatto cambiare idea: sua madre è una pittrice. Ma portare la pittura al cinema non è facile: si tratta di due superfici piatte - la tela, lo schermo. Così siamo passati alla tridimensionalità della scultura e, considerato che oggi lo scultore “classico” è una figura desueta, abbiamo costruito quell’artista “multiforme” e a tutto tondo a cui l’arte contemporanea ci ha abituato. Per raccontare credibilmente un ambiente così sdrucciolevole, ancor prima di cominciare a scrivere, con Angelo Pasquini e Carla Cavaluzzi, i miei co-sceneggiatori, abbiamo subito sentito il bisogno di individuare un “Virgilio” che ci facesse strada: Gianni Dessì. E’ grazie alla sua preziosa collaborazione che siamo riusciti a contestualizzare la storia. Il nostro intento comunque è rimasto sempre lo stesso: raccontare personaggi verosimili e dinamiche possibili senza però la pretesa di esprimere giudizi di sorta.
Man mano che il film prendeva corpo, abbiamo deciso che non solo le opere di Adrian Scala – il personaggio interpretato da Scamarcio – fossero realizzate dallo stesso Dessì ma che questi diventasse il curatore di tutte le mostre raccontate nella storia. È il curatore nel senso che ha scelto gli artisti con la coerenza con cui il curatore svolge il suo compito. Insieme al lavoro fatto - di ricerca di spazi e costruzione di ambienti - dallo scenografo che da sempre collabora con me, Luca Gobbi, ne è venuto fuori un risultato a mio parere molto efficace. Nel film appaiono solo opere vere, niente pezzi da laboratorio di scenografia. Dessì, in fase di preparazione, ha anche lavorato assiduamente con Scamarcio. In questo modo Riccardo ha potuto prendere dimestichezza con gli strumenti e i materiali usati dall’artista che poi avrebbe interpretato.

L’aspirazione al successo. E’ un tema forte del film?
Sergio Rubini: Raccontando la storia di un giovane artista di talento, ben si comprende come il tema del successo sia un tutt’uno con la condizione esistenziale del nostro protagonista. L’artista, di necessità, ha come obiettivo il riconoscimento da parte della collettività – in primis del mondo dell’arte – del proprio valore. Ciò implica la sua continua esposizione non solo al giudizio degli altri ma ai pericoli, agli intralci, a ciò che minaccia insomma il proprio progetto. Tutto questo si complica quando si ritrova di fronte a delle scelte che sono delle vere biforcazioni: da una parte una strada più difficile e lunga, dall’altra una più rapida e agevole ma scorretta, pericolosa anche. Il film racconta il conflitto lacerante che ognuno di noi vive con la propria ombra.

Un film di genere?
Sergio Rubini: Per un tema così - il doppio, l’ombra – ho subito pensato al noir, mi permetteva di raccontare non solo una storia, ma uno stato d’animo, l’accrescersi di una febbre che portata al paradosso può spingere un uomo fino al delitto. Mettiamoci sopra poi che questo conflitto va a consumarsi in un ambiente estremamente confortevole, in un salotto curato, ben illuminato, in cui l’abbrutimento è solo morale, non del costume... Insomma niente di dark o sanguinolento, solo un nero “luccicante”. Penso che, ad una prima lettura, lo spettatore possa accoglierlo come un film di genere, scoprendo, poi, in un secondo momento, i diversi livelli che si nascondono dietro.

L’arte e il plagio…
Sergio Rubini: Un confine molto labile. Ma dentro di noi sappiamo bene cosa ci appartiene e cosa no. È ciò che avviene dentro di noi l’aspetto che mi interessava approfondire.

Ti sei vagamente ispirato a qualcuno?
Sergio Rubini: Mi è stata di aiuto qualcuna delle “ombre” che vivono dentro ognuno di noi nonché Faust, Otello...

Interpretare la cattiveria…
Sergio Rubini: È un’esperienza compensativa “fare il cattivo” in scena: ti apre, ti completa, ti fa conoscere - senza grandissimi rischi! – parti di te più estreme, di cui magari eri all’oscuro, ma che pure ti appartengono. E poi ti aiuta a guardare il tuo doppio con distacco e quindi con una certa ironia e forse ad esserlo di meno nella vita.

Nei tuoi film scegli per te un ruolo da coprotagonista.
Sergio Rubini: La razionalità del regista e l’irresponsabilità dell’attore sono due “modi d’essere” che a fatica coesistono - a meno che non ci sia un’inclinazione di tipo schizofrenico… In passato ho cercato di ritagliarmi ruoli che fossero sempre più piccoli per sottrarmi a questa malattia. Questa volta mi è andata male: Lulli è un personaggio molto presente nel racconto e per di più complesso.

Ci parli allora del tuo protagonista, Riccardo Scamarcio?
Sergio Rubini: Scamarcio oltre ad essere un bravo attore è estremamente versatile. Sul suo volto, nel suo modo d’essere sono presenti più sfumature: non solo quell’immediatezza tipica della gioventù che lo ha portato al successo coi suoi film d’esordio, ma anche una malizia, una consapevolezza. Lo sguardo – proprio dell’adulto - di chi sa già sostenere scelte e responsabilità. Inoltre lo ritengo una vera occasione per la nostra cinematografia: può “traghettare” parte del suo pubblico verso un cinema meno “settoriale” - com’è quello generazionale o giovanilistico - ma più ampio ed eterogeneo. Infine mi sembra che Riccardo, con il suo modo di porsi, sdogani definitivamente la figura del meridionale con la valigia di cartone.

Dialetto pugliese sul set e complicità con Scamarcio?
Sergio Rubini: A volte. Avere in comune una lingua - nel caso mio e di Scamarcio il dialetto – ci poneva in una condizione privilegiata rispetto agli altri. Quando volevamo potevamo comunicare senza essere compresi: una sorta di magia, un segreto. Un gioco da ragazzi molto divertente ma anche molto intimo, che ci ha uniti ancora di più.

E Vittoria Puccini? Dopo averla fatta debuttare al cinema in “Tutto l’amore che c’è” l’hai l’hai scelta di nuovo.
Sergio Rubini: Vittoria è un’attrice molto solida che pur mantiene una grande naturalezza. Con la sua bellezza fredda e composta e la sua aria da ragazza perbene, mi è sembrata poter incarnare a dovere il personaggio di una giovane e raffinata studiosa d’arte dalla personalità complessa e profonda - peraltro oggetto del desiderio di due uomini di età diverse. La totale mancanza di volgarità nella sua fisicità e nei suoi modi, mi ha permesso anche di mostrare nel film la sua nudità lasciando intatte l’idea estetica di una femminilità eterea, e quella etica di un personaggio spirituale.

Le scene più emozionanti e quelle più difficili?
Sergio Rubini: Quando ho girato alla Biennale – si trattava di un inseguimento – è stato molto emozionante. Poter girare proprio nel capannone delle Corderie è stata un’esperienza unica. Un set perfettamente “scenografato” e già perfettamente illuminato: un vero regalo! Quanto alle scene difficili: non esistono scene facili.

Il tuo rapporto con la tecnica cinematografica?
Sergio Rubini: È lo strumento con cui scrivi ciò che hai immaginato, su cui hai ragionato; è bene approfondirla, ma con misura per non esserne fagocitati. Delle volte sarebbe anche vitale presentarsi sul set senza avere un’idea precisa di cosa fare - per lasciarsi andare, improvvisare. Fellini raccontava che è proprio quando hai immaginato una scena con le nuvole e il caso vuole che ti ritrovi a girarla ahimè col sole, che il film ti si rivela, ti mostra la sua identità. Il compito di un regista è anche quello di assecondare il suo film. Insomma è come se i film esistessero da qualche altra parte chissà dove e il regista avesse il compito di catturarli, di imbrigliarli e dargli una forma.

Qual è il tuo rapporto con la critica?
Sergio Rubini: Sto attento a quello che scrivono e mi interrogo su quello che faccio. A volte, se ci riesco, provo a dimenticarmene…

20/03/2008, 08:00