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Note di regia del film "Fortezza Bastiani"


Note di regia del film
Una scena del film "Fortezza Bastiani"
"Bologna è un’ovatta che vi addormenta" dice il Predicatore all’inizio del film. Il torpore prodotto da questa città non è innocuo: spiazza esistenze, ridisegna destini, crea vortici danteschi in cui le vite vengono risucchiate, spolpate. La tragicommedia dello studente nella città degli studenti non fa sempre ridere, non è sempre comica o goliardica. Per anni si vive in branchi, collettivi, piccoli gruppi, si cerca di proteggersi così, si rimanda la solitudine delle scelte sempre un po’ più in là, aspettando che qualcosa accada e ci renda più forti, sicuri, capaci di decidere. Il tuffo dalla tarda adolescenza all’età adulta invece è amaro, non consolatorio, ed è forse il primo, unico, vero atto, compiuto in solitudine.
Bologna posticipa questo momento, lo ritarda. Nell’attesa ti inghiotte, crea paradisi artificiali per soddisfare il tuo bisogno di essere insieme ad altri, di condividere tutto, dalle sigarette agli amori, dagli studi alle sbronze. La stessa città che ti narcotizza, ingrassa e specula avidamente sulla tua vita, gettandoti in una polka scatenata, assecondando la tua rincorsa all’eterna giovinezza.
Per lungo tempo ci siamo interrogati su come poter raccontare questa generazione, la generazione di chi ha tra i venticinque e i trent’anni; come poterlo fare senza scadere negli stereotipi, senza essere nostalgici e ideologici. Se ci siamo riusciti è grazie anche alla tenacia nel ricercare costantemente un midollo di verità nelle relazioni fra i personaggi, nella forma del racconto che è quella di un’epica senza eroi, in cui il bene e il male ci avvolgono come melassa, e la dimensione temporale precipita nell’assurdo tentativo di darle una scansione.
Non ci sono eroi perché l’università è un nemico che non si può nemmeno affrontare, un luogo, senza tempo, eterno. Non risponde più ai desideri e alle aspirazioni degli abitanti della Fortezza, è simulacro vuoto di un sapere ingessato che non trova più alcun modo di trasmettersi alle nuove generazioni, è un potere vecchio basato su un sistema clientelare chiuso e autoreferenziale, negazione di ogni spirito libero e di ogni sorta di vivacità intellettuale.
Abbiamo provato a lungo con gli attori prima di girare, abbiamo cercato di farne un gruppo credibile, affiatato, eterogeneo. Abbiamo lavorato sulla memoria, sulla costruzione di un loro passato. Abbiamo riempito i cassetti e gli scaffali della Fortezza di libri che sono diventati loro, di oggetti che sono diventati fondamentali per dire una battuta, per creare un movimento, per costruire una scena.
Abbiamo lavorato in regia non accontentandoci mai di soluzioni preconfezionate, trovando per ogni scena una peculiarità in ripresa che rimandasse all’unicità di queste vite appese a un filo. La fissità della macchina da presa a definire la dilatazione temporale claustrofobica della Fortezza. La macchina in spalla, veloce e guizzante, a cercare margini di imprevedibilità nei momenti in cui il coro si cimenta nell’azione. La complessità di movimenti di macchina sinuosi e articolati intorno ai personaggi per cercare un cielo che non compare mai. I mille angoli per tratteggiare la dimensione surreale e visionaria del labirinto universitario.
E infine la musica, non colonna sonora ma battito cardiaco del film.
Un film che sprofondando visceralmente nella realtà bolognese trova, a nostro avviso, il suo tratto di universalità.

Michele Mellara ed Alessandro Rossi