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Intervista al regista Franco Diaferia sul film "In Nome di Maria"


Intervista al regista Franco Diaferia sul film
Il regista Franco Diaferia
Com'è nata l'idea del film?
Franco Diaferia: Da parecchio tempo accarezzavo l’idea di raccontare delle storie che riguardassero una parte del mondo che per noi occidentali sembra così distante, geograficamente e culturalmente, ma che invece risulta essere inaspettatamente vicino. Stavo cercando un motivo per scrivere una storia di sentimenti profondi che mostrasse una realtà poco conosciuta, al di la degli stereotipi dell’emigrazione e delle belle donne che cercano di abbindolare “l’italiano” di turno e farsi sposare grazie alla loro bellezza. Queste le avevo già scritte ma, non convincendomi a sufficienza, sono ancora nel mio cassetto. “Inseguendo una libellula in un prato”, canterebbe Lucio Battisti su parole di Mogol per esprimere poeticamente il concetto della ricerca di un’idea, di una motivazione. Una domenica pomeriggio mi sono imbattuto in un programma televisivo, di quelli in cui si urla troppo per parlare di argomenti che andrebbero trattati con il massimo tatto e delicatezza. Un programma in cui i partecipanti esprimono sguaiatamente rimedi e soluzioni a problemi che mai hanno approfondito abbastanza e che una volta terminata la diretta televisiva, pensano solo all’audience e alla loro “performance” in funzione dei compensi e dei ritorni di immagine. Quel programma aveva per oggetto la bambina bielorussa “trattenuta” in un luogo segreto da due coniugi liguri che accampavano su di lei diritti di patria potestà in un modo da farla perdere a dei genitori naturali. Ma in quel programma erano tutti schierati a loro favore, sull’onda emotiva che i media nostrani avevano orchestrato in modo da non fare trasparire la vera realtà delle cose. Tutti a favore, il conduttore nazional-popolare che, affiancando il ricciolo ed abbronzato intervistatore dal nome simile ad un rasoio da barba, inveiva contro l’ambasciatore del paese di origine della bambina che, lasciato solo nel contraddittorio, mostrava un’algida sicurezza di se e dei suoi argomenti al limite dell’indisponenza e che faceva, più o meno inconsapevolmente, il gioco della controparte su cui attirare le ire del pubblico. D’altronde e’ sempre facile puntare il dito contro gli altri, a maggior ragione se decenni di contrapposizione storica hanno inculcato in noi “buoni” occidentali la visione che i “cattivi” sono ad est, soprattutto poiché abituati a vedere l’ex unione sovietica come un luogo popolato di spie e di guerrafondai pronti ad invadere la nostra tranquillità con i loro carri armati e missili a lunga gittata. Le cose però, non stanno più così. Perlomeno per chi ha potuto visitare e frequentare quei luoghi che oggi, vista la ritrovata serenità tra i popoli, così distanti non sono. Geograficamente e culturalmente. Telefonai immediatamente ad Andrea Lionetti, con il quale stavamo lavorando da quattro mesi alla ricerca di un’idea da trasformare in un film proprio in quei territori, dicendogli che avevo avuto un’illuminazione. Presi l’auto e mi precipitai a casa sua per raccontargli il soggetto, che durante il percorso sempre meglio si concretizzava nella mia mente. Con Andrea già stavamo sviluppando la scrittura una commedia sentimentale che avesse come sfondo un paese ex sovietico, ma quello che avevo visto e sentito in tv mi aveva aperto un nuovo orizzonte che volevo approfondire. Con la chiarezza quasi “religiosa” derivata da un visione mistica, gli raccontai cosa stavo pensando. E così incominciammo a ragionare su come tradurre quello spunto in un film che raccontasse la storia di un personaggio attraverso il quale far passare al pubblico delle informazioni raccolte realmente sul campo ma in modo assolutamente filmico. Certamente non un reportage, non un documentario ma che attraverso una visione possibilmente neutrale, non schierata, si contrapponesse a quello che ci era stato fatto vedere e credere dalla televisione e dai giornali.

Come si sta sviluppando il progetto sia in Italia che in Ucraina?
Franco Diaferia: Prima di tutto e’ necessaria una chiarificazione alla domanda: ma se l’incipit della storia nasce dal fatto a tutti noto della bimba bielorussa, l’Ucraina cosa centra? Come detto prima, con Andrea (Lionetti) stavamo già lavorando ad una storia che si sviluppava in questa che e’ una nazione in forte evoluzione visto il programma del governo di entrare in Europa nei prossimi anni. Infatti solo due ore e mezza di volo aereo ci separano da Kiev, la culla della nazione Russa nell’anno 800 e che ora e’ la capitale di una nazione “giovane” vista l’indipendenza ottenuta nel 1992 dall’unione sovietica. Attualmente, per i cittadini della UE, e’ possibile entrare in Ucraina senza visto mentre non si può in Bielorussia e Russia, dove il visto e’ ancora necessario. Così sia da un punto di vista logistico e produttivo, sia perchè e’ palese l’atteggiamento di invogliare iniziative private di cittadini stranieri da parte dell’amministrazione locale, la scelta e’ stata naturale. E poi perchè dal punto di vista architettonico e strutturale e’ inutile dire che la somiglianza tra i paesi e assolutamente la stessa. Anni addietro sono stato in Russia a Mosca e poi in Siberia, Omsk, per filmare dei documentari e lo stampo sovietico fa si che i luoghi siano molto spesso identici. Durante la fase di ricerca e studio, siamo andati in Ucraina parecchie volte e li abbiamo incontrato molte persone e visitato molte strutture pubbliche. Con grande nostra sorpresa, la disponibilità mostrata nei nostri confronti e’ sempre stata totale. Mai una volta che ci abbiano negato la visita in un orfanotrofio o in luoghi dell’amministrazione statale. Sovente ci siamo presentati senza preavviso alcuno e dopo una breve presentazione operata da Marina, la traduttrice che ci segue nelle visite e nei viaggi, le porte ci sono sempre state aperte senza problemi. Solo per fare un esempio: durante gli ultimi sopralluoghi fatti con lo scenografo, il direttore di produzione e con il direttore della fotografia, il grande Luciano Tovoli, ci siamo presentati all’improvviso in una scuola in cui volevamo trovare un lungo corridoio per girare una scena. Il tempo dei convenevoli e poi la direttrice comincia a farci fare il giro di tutta la struttura (enorme) decantando con orgoglio tutte quelle che sono le loro attività, mostrandoci le aule, la mensa, le cucine, la piscina. Insomma, dopo tanto girovagare non vedevamo l’ora di uscire, soffocati da tanta disponibilità. Io ero già consapevole dalle precedenti visite, ma anche Tovoli ha espresso una naturale constatazione dicendomi: “…quando mai in Italia ci avrebbero concesso tanta apertura senza dover inoltrare domande, richieste di autorizzazione e carte bollate varie.”

Com’è nata la collaborazione con Tovoli?
Franco Diaferia: Il suo agente italiano Michele Palatella, che e’ lo stesso del protagonista del film Gilberto Idonea, mi comunicò che il maestro Tovoli, dopo aver letto la sceneggiatura, mi voleva incontrare per saperne di piu’ del progetto. Dopo un primo incontro conoscitivo in Roma in cui gli esposi le tesi delle mie scelte di scrittura, al secondo mi disse: “questa sceneggiatura mi ha emozionato come da tempo non mi accadeva… Mi piacerebbe partecipare alla realizzazione del film.” E così adesso mi trovo a condividere le scelte ed inquadrature con chi ha fatto la storia del cinema italiano ed internazionale. Durante le giornate e le cene in cui parliamo della realizzazione del film, rimanevo incantato nell’ascoltare i racconti delle situazioni in cui Mastroianni, piuttosto che Troisi, Meryl Streep o Jeremy Irons hanno avuto a che fare con lui. Gli raccontavo di come immaginnavoo la ripresa di una scena con la stedycam nella stazione centrale di Kiev, che avevamo visitato in giornata, e mi rispondeva: ”ok, perfetto… già la vedo… quando la giriamo?” Luciano, autorità assoluta in campo di ripresa su pellicola, mi dice che per lui questa e’ la naturale continuazione di un progetto innovativo che già nel 1979 iniziò con il maestro Michelangelo Antonioni, il primo che fece un film utilizzando e sperimentando l’immagine elettronica (allora agli albori) e che oggi e’ comunque il mezzo di ripresa che altri grandi registi come Michael Mann, Robert Rodriguez e George Lucas hanno usato. Parole sue: non e’ il mezzo di ripresa che conta, e’ la storia che viene raccontata che fa la differenza. E se queste affermazioni e nomi non mettono i brividi….. Ma il mio massimo debito di riconoscenza va a Gilberto Idonea (Don Vittorio), grande attore catanese, che sarà il protagonista del film e che si e’ adoperato mettendo in moto le sue conoscenze di anni di lavoro per rendere possibile il progetto. Ha creduto in me fin dal momento che ci siamo incontrati e da quel momento abbiamo intrecciato una sana amicizia che spesso sconfina in un rapporto padre-figlio. Il personaggio principale del film e’ stato scritto pensando proprio a Gilberto.

La beneficenza...
Franco Diaferia: “Vi racconto il mio dramma!”. Il mondo ci ha insegnato che chi urla di più, chi scalpita di più, chi inveisce di più, attira prima e meglio l’attenzione degli altri, abbiamo purtroppo relegato nel dimenticatoio coloro che vivono in silenzio i veri drammi dell’umanità. Il giorno in cui mi sono trovato nell’ospedale oncologico pediatrico di Kiev, ho visto la vera disperazione legata all’assoluta impotenza di coloro che sanno di combattere una battaglia persa. Madri che, nel tentativo di prolungare la vita dei loro figli, si trasformano in medici, suore, infermiere, là dove questi sostegni dovrebbero essere garantiti ma che sono invece completamente assenti. Eppure quello e’ l’ospedale meglio attrezzato della nazione. Figuriamoci gli altri. Genitori che hanno perso tutto per poter comprare qualche flacone di chemioterapia venduta a peso d’oro e che hanno trasferito la loro casa in due scatole di cartone tenute sotto il letto del figliolo con il quale, a turno, dormono diventando essi stessi fonte di infezione, a volte letale, per le creature ormai senza protezione immunitaria. Il giorno in cui con Andrea Lionetti visitai l’ospedale, Elena, la presidente dell’associazione “Nabat” di Kiev che opera in favore di quella struttura, ci raccontò che pochi giorni prima, su un giornale, era apparsa la foto del bambino che ora avevamo di fronte a noi con la richiesta di una donazione tramite conto corrente affinché si potesse sostenere la sua cura. Non un kopeko (centesimo) arrivò per lui e la sorte avversa gli aveva giocato un altro tiro mancino: il numero di conto corrente era anche stato stampato in modo errato. “Ma allora, i soldi erano arrivati comunque, solo nel conto sbagliato… speravamo tutti”, ci dice Elena. Anche in quel caso, non un centesimo. E mentre il bambino cercava di attirare la nostra attenzione tirandoci una pallina colorata con il suo braccino collegato alla flebo da un tubicino che pure quello deve essere comprato all’esterno dell’ospedale, Elena ci presentava Yuliya, una ragazzina con due splendidi occhi azzurri e con un foulard colorato in testa nel tentativo di ridare grazia e gentilezza ad un giovane viso senza capelli, che dopo tre giorni sarebbe stata operata ma che ancora non si sapeva se sarebbe sopravvissuta vista la mancanza di sangue compatibile per la trasfusione. Solo un miracolo l’avrebbe salvata. Due settimane dopo abbiamo saputo che purtroppo per lei, Dio aveva l’agenda già troppo impegnata. Aveva solo dodici anni. Questi sono solo due dei motivi che mi hanno spinto, in qualità di co-produttore del film, a pensare che se l’argomento della pellicola e’ quello di sensibilizzare le persone verso questi di problemi, devo essere io il primo a fare qualcosa che vada oltre il semplice fatto di evidenziarlo attraverso la macchina da presa. Così ho contattato anche con l’associazione italiana “Soleterre” Onlus ed ho inviato loro la sceneggiatura per iniziare a condividere un percorso verso un obiettivo comune. Damiano Rizzi e Floriana De Pasquale (Soleterre) si sono subito dichiarati disponibili e assolutamente coinvolti dall’argomento visto che in prima persona si adoperano per l’ospedale oncologico pediatrico di Kiev.La mia proposta e’ stata quella di devolvere parte degli incassi del film per il miglioramento della struttura ospedaliera come ad esempio, la costruzione di una camera sterile nella quale i bambini possano essere sottoposti alla chemioterapia senza pericolo di infezione. A parte questo progetto, l’accordo prevede la collaborazione attraverso i reciproci uffici stampa per iniziative che promuovano la causa comune affinché i mezzi di comunicazione ne divulghino la notizia sostenendo la donazione.

Qual'è il messaggio del film?
Franco Diaferia: Non vorrei apparire troppo presuntuoso o retorico affermando che il film sia portatore di un messaggio. Spero solo che si percepisca che, indipendentemente dalla zona del modo a cui facciamo riferimento, l’infanzia deve essere rispettata. Troppo spesso sentiamo di bambini vittime di violenze efferate ed inconcepibili e sempre più queste notizie sono all’ordine del giorno. Aiutare l’infanzia e’ un dovere di ogni persona adulta. Rinunciare ad una piccolissima parte di noi, che sia tempo o denaro, a favore dei bambini che soffrono e’ un dovere che dovremmo percepire come naturale. “In Nome di Maria” contiene nel titolo una doppia valenza: il riferimento religioso al fatto che un prete cattolico sia il protagonista della vicenda ma soprattutto che tutto ciò che accade nel film sia originato dalla volontà di operare in favore della bambina, quale metafora e trasposizione di tutti i bambini che vivono condizioni di forte disagio. Il film tende a prendere per mano lo spettatore e, attraverso il protagonista che compie un viaggio in un paese sconosciuto e per molti versi ostico, guidarlo verso la comprensione di un fenomeno sociale sconosciuto e sottovalutato: i soggiorni terapeutici dei bambini delle zone ancora contaminate dalla radioattività post-Chernobyl. Troppo spesso si presume di essere immuni dalle disgrazie finché non toccano le nostre vite. In ogni caso, il tentativo e’ quello di far comprendere che non esiste mai una netta distinzione fra bene e male, tra giusto e sbagliato… anche quando si pensa di essere dalla parte della ragione. Come coloro che hanno sostenuto il rapimento della piccola bielorussa. E’ pur vero che coloro i quali inoltrano domande di adozione sono sottoposti ad estenuanti attese ed interminabili esami, ma non possiamo far passare il messaggio che il sequestro di minore sia la risposta al dilungarsi delle procedure burocratiche. Ci sono delle leggi che, purtroppo a volte, devono essere rispettate. Il gesto di pochi può compromettere tutto un delicato meccanismo, così come in effetti e’ accaduto. Quando ci sono i bambini di mezzo l’egoismo pur comprensibile degli adulti (come quello di voler essere genitori a tutti i costi) deve essere messo da parte in favore di un bene più grande. I bambini che ogni anno vengono in Italia da Ucraina, Bielorussia e Russia, non arrivano per essere adottati ma per soggiornare in un territorio che permetta loro di recuperare la salute. In pratica disintossicarsi da quelli che sono gli effetti ancora devastanti delle radiazioni post-Chernobyl. Molti di loro hanno famiglie vere e sane che li aspettano al ritorno mentre altri purtroppo hanno solo l’orfanotrofio. Certo, una situazione difficile, ma che va risolta con l’interesse e l’apporto della comunità di origine e quella ospitante, senza che nessuno faccia la voce grossa pensando di diritto di essere dalla parte della ragione.

09/05/2007