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Max Osini  (07/02/2006 @ 00:00)
E' stato per me oltremodo deludente assistere a questo film. Non sono un appassionato di Bellocchio, ma il fatto che "L'ora di religione" fosse presentato a Cannes e suscitasse una serie spropositata di dibattiti mi aveva perlomeno incuriosito e fatto pensare a un orgoglioso colpo di coda di un cinema italiano agognante. E invece niente: ancora una volta non si può che constatare come le ambizioni creative siano frustrate da carenze tecniche e strutturali veramente preoccupanti. Peggio del peggio, le polemiche sembrano orchestrate ad arte, visto che di scandaloso, in questo film, ci sono soltanto un paio di bestemmie, peraltro gratuite. E tuttavia il problema de "L'ora di religione" non risiede tanto in ciò che vuole dire, quanto nel modo in cui lo dice. I temi della famiglia, dell'ipocrisia, dei rapporti tra religione e società possono anche essere pertinenti e interessanti, ma manca un una struttura in grado di sostenerne lo sviluppo. Con un procedimento che farebbe inorridire un qualsiasi sceneggiatore americano, Bellocchio mutila la storia dell'inizio e della fine. Non serve essere esperti semiologi per percepire che alla trama manca un'impostazione che definisca i problemi in gioco e ci introduca al mondo dei personaggi, altrimenti destinati a vivere in un limbo di stereotipi e banalità. Perché il protagonista si oppone così strenuamente al conformismo borghese? Qual è la sua formazione? Quali sono le ragioni del rapporto traumatico tra la madre ossessivamente religiosa e il fratello ostinatamente blasfemo? Non è dato sapere. Al tempo stesso manca una conclusione che tiri le fila del racconto e che chiarisca ciò che il personaggio interpretato da Castellitto ha maturato da questa storia, nonchè le sue decisioni conseguenti. E Bellocchio cosa pensa? Cosa vuole comunicare? Che posizione prende? Troppo facile dire che l'ipocrisia è disgustosa, lo sanno tutti, c'è dell'altro? C'è stato chi ha proposto un parallelo kafkiano in ragione del fatto che l'inizio del film ricorda l'inizio de "Il processo" e che tutta la storia ha un aspetto onirico ed enigmatico. L'accostamento non è fuori luogo e lo stesso regista parla di "un giallo molto bizzarro". Rimane da valutare la riuscita di un operazione del genere e la sua convenienza in termini di narrazione filmica. Personalmente mi sembra che il ricorso a situazioni improbabili, a immagini surreali e a un finale aperto siano da interpretare più come un obbligo imposto dall'incapacità di articolare un discorso coerente che dal desiderio di realizzare un opera d'arte. E' deprecabile inoltre tutta l'attenzione dedicata dalla critica a un film che senza il baillame scandalistico non sarebbe stato visto da nessuno e che, proprio per il suo successo, rischia di diventare un cattivo maestro per giovani registi in erba convinti che basti qualche incongruità per realizzare dei capolavori.

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