Note di regia del documentario "Il Diario di Felix"


Note di regia del documentario
Ho conosciuto Casa Felix durante l’edizione del mio terzo libro fotografico Stato d’Italia (2011, ed. Postcart), con la prefazione di Lucia Annunziata. Inizialmente ero interessato ad un reportage fotogiornalistico ma con il tempo le cose sono cambiate.
Il primo ragazzo che si è fatto fotografare si chiamava Junes e veniva dal Marocco. Junes è stato aggressivo sin dal primo giorno. “Che cazzo me ne frega a me di dirti chi sono... che cazzo vuoi tu da me”, mi diceva. Ma dopo qualche volta che andavo, in cui nemmeno mi salutava, sono rimasto con lui più tempo e gli ho insegnato a giocare a tresette, visto che gli altri ragazzi giocavano sempre fra di loro e lui era escluso. Dopo abbiamo visto la partita del Milan e cominciato a parlare di calcio. Rideva perché uno dello staff tecnico del Tottenham aveva detto a Gattuso “fuck italian bastard”. Lo ripeteva in continuazione. E rideva. La testata di Gattuso in reazione non lo interessava, per lui era tutto in quella frase. Pochi minuti dopo mi ha chiesto lui di fargli una foto. Si è tolto la maglietta, mi ha mostrato i muscoli e si è fatto fotografare. Questo è stato soltanto l’inizio. Per due anni ho percorso tutti i giorni la stessa strada (la Palmiro Togliatti - la tangenziale che attraversa tutta la periferia est di Roma), incontrando gli adolescenti e gli operatori di casa Felix, completamente assorbito dai ritmi della loro vita e dai loro diversi destini.
La necessità di trasformare l’iniziale progetto fotografico in un documentario è maturata piano piano, fino a concretizzarsi definitivamente il giorno dell’arrivo di Valerio. In quel momento, mi sono reso conto che per raccontare davvero quello che vivevo nella casa famiglia avrei avuto bisogno di un linguaggio diverso. Per descrivere lo stato d’animo di solitudine e incertezza che dominava il volto di Valerio la mattina del suo arrivo, le fotografie non bastavano più. Così ho deciso di riprendere tutta la scena con la videocamera. L’attrezzatura professionale, che ho sempre utilizzato per i reportage fotografici, la Canon EOS Mark II, è anche un’ottima videocamera, così è stato facile passare dal ‘click’ della macchina fotografica al ‘rec’ della videocamera.
Quando ho rivisto le riprese dell’arrivo di Valerio ho provato un’emozione che ha rotto ogni indugio: dovevo affiancare un documentario al lavoro fotografico. La via, per così dire, era tracciata.
Ho fatto una scelta di linguaggio molto precisa e netta, cercando di avvicinare il più possibile il movimento della camera ai movimenti che si fanno quando si realizza reportage fotografico. L’intenzione era di dare dinamismo e veridicità alle riprese e sottolineare che la videocamera rappresentava il punto di vista di uno degli abitanti della casa, non una presenza estranea quindi, e, contemporaneamente, una mia lunga e ininterrotta soggettiva sulla vita a Casa Felix.
Mi sono messo in gioco, ho rivisto in queste storie di adolescenti frammenti della mia storia, ho fatto un viaggio nella mia adolescenza per avvicinarmi e comprendere la loro. La vita a Felix è come uno specchio aperto su di te, riflettente e deformante insieme. La mia voce fuori campo, che interagisce con i ragazzi, fa da contrappunto a questa scelta estetica e ne vuole rivelare l’intenzione.
C’è voluto del tempo per trovare le giuste misure e perché i ragazzi accettassero la mia presenza. Ma il tempo, la pazienza e la relazioni e i legami d’affetto che si sono intrecciati fra me, i ragazzi e gli operatori della casa famiglia alla fine hanno avuto la meglio. Come recita il brano de Il Piccolo Principe da cui ho estratto il titolo del documentario: “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, cosi’, nell’erba. Io ti guardero’ con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ piu’ vicino a me”.

Emiliano Mancuso

25/11/2014, 10:55