Pietro Germi, a cento anni dalla nascita regista dimenticato


Pietro Germi, a cento anni dalla nascita regista dimenticato
Non nascose mai Pietro Germi le sue simpatie politiche per i socialdemocratici di Saragat. E questo la critica militante vicino al vecchio Partito Comunista non glielo perdonò, tant’è che Umberto Barbaro, codirettore della storica rivista “Bianco e Nero” e firma di punta del tempo, arrivò persino a scrivere che gli operai portati da Germi sullo schermo erano delle caricature da far urtare i nervi e se fossero stati in carne e ossa non avrebbero avuto una coscienza di classe, avrebbero votato per i socialdemocratici e avrebbero persino giustificato alleanze governative della sinistra con la destra.

Benché potessero in parte addolorarlo, a questi giudizi tassativi (e definitivi) Germi non diede particolare importanza. Fu artista schivo e solitario, seppe cucire con ineccepibile tecnica storie lineari dove operai e disoccupati venivano visti con simpatia e compassione, mentre quando metteva in scena la borghesia riservava ad essa solo graffi sarcastici.

Il suo nome si associa a diciannove lungometraggi, ma Germi ebbe la sfortuna di non poter realizzare il suo “Amici miei” che sicuramente gli avrebbe potuto assicurare il più grande dei successi. Non poté a girarla l’opera a causa di una malattia infettiva che lo portò alla morte nel dicembre del 1974. Poco mesi prima del decesso Germi passò il soggetto del film a Mario Monicelli, il quale fece di “Amici miei” un capolavoro della commedia italiana degli anni settanta ed ebbe il garbo di mettere nei titoli di testa la dicitura “un film di Pietro Germi”.

Oltre i quarant’anni dalla morte, ricorre quest’anno del regista-attore pure il centenario della nascita (vide i natali a Genova il 14 settembre 1914 da una famiglia modestissima) e dispiace che ad oggi solo il Festival di Genova lo scorso luglio si è degnato di commemorare questo maestro-artigiano della macchina da presa che, dopo aver lavorato con Blasetti, esordì nel 1945 con “Il testimone” dando prova della propria maestria e facendosi conoscere come uno dei giovani più promettenti usciti dal Centro Sperimentale di Cinematografia.

Con “Gioventù perduta” (1947), “In nome della legge” (1949) e “Il cammino della speranza” (1950) le pennellate del neorealismo di Germi vennero intrise, oltre dal moralismo (costante che ritroveremo in tutte le altre opere), da una “tensione continua tra le materie povere del dopoguerra e l’esuberanza del racconto tradizionale, tra un’emotività epocale e una solida cultura dello spettacolo popolare”. Invece con “Il ferroviere” (1956), e “L’uomo di paglia” (1958) - drammi di due operai interpretati dallo stesso Germi - si può dire che si chiudeva la stagione del neorealismo e il suo spirito popolare poteva essere associato già ad un’Italia del passato.

Ad aprire una nuova stagione dell’opera di Germi, che si andrà via-via affermandosi in un campione del cinema di genere e della commedia all’italiana, sarà “Un maledetto imbroglio” (1959), tratto dal gaddiano “Quer pasticciaccio brutto de via Merulada” , ma il grande successo di pubblico e ai botteghini arriverà con “Divorzio all’italiana” (1961), che conquisterà l’Oscar per la miglior sceneggiatura e la nomination per la regia, “Sedotta ed abbandonata” (1964) e “Signore e signori” (1965), pellicole nelle quali Germi osserverà con acre e sbeffeggiante cinismo i vizi del ceto altolocato. Le ultime battute della carriera di Germi avverranno con tre prove pseudomisogene: “Serafino” (1968) con Adriano Celentano, “Le castagne sono buone”, girato sulla Costiera Amalfitana ed interpretato da Gianni Morandi e Stefania Casini, ed “Alfredo, Alfredo” (1972) con Stefania Sandrelli, Carla Gravina e un Dustin Hoffman fiacco e non certo al top della sua fama di divo.

21/09/2014, 07:09

Mimmo Mastrangelo