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Corso Salani, l'apolide


Corso Salani, l'apolide
Dopo un’esistenza ai confini della vita reale e di quelle sognate o (re)inventate, se n’è andato in punta di piedi il regista e attore Corso Salani, così come è vissuto. Avevamo fatto la stessa scuola quasi 30 anni fa. Ci siamo seguiti e talvolta incrociati nei nostri percorsi fino alla selezione di due delle sue opere al festival di Annecy, in Francia: per il concorso di film di fiction nel 2001 con "Occidente", premiato per l’interpretazione di Agnieszka Czekanska, e con "Yotvata", ultimo film della serie “Confini d’Europa”, per il concorso di documentari nel 2008.

Dopo le sue prime -acerbe- pellicole, tre corti girati su più anni, riuniti in "Voci d' Europa" e "Gli Ultimi Giorni" (1991), arriva la svolta di "Gli Occhi Stanchi" (1995). In questo film, si segue una troupe che ripercorre con la protagonista, un’ex-prostituta polacca, i luoghi dove è vissuta. Lo spettatore è immerso nel fiume di parole della voce-off della donna che si racconta creando un effetto spiazzante. Si finisce per credere che confida il proprio vissuto, che la vita narrata è davvero quella della persona sullo schermo… che l’attrice non è un’attrice ma che siamo di fronte ad un documentario.
Da quel film in poi, tutta la filmografia di Corso Salani giocherà sempre su questa ambiguità, non smetterà più di miscelare con tutte le varianti di dosaggio possibili, fiction e documentario. Qui risiede la principale originalità della sua opera, il marchio della sua poetica. Inoltre, da "Gli Occhi Stanchi", inizia a privilegiare come protagonista assoluto la figura femminile che è riuscito a proporre con una profondità e un rispetto rari nel cinema italiano.

Ma appunto, le “sue” donne non sono mai italiane così come i luoghi dove gira. In Italia, ha girato solo nell’isola di Capraia e nell’enclave della base americana di Aviano in "Ocidente". Senza dimenticare però il documentario su commissione girato in Puglia su Nichi Vendola dal titolo significativo: "C'è un posto in Italia". Difatti Corso ha sempre voluto sfuggire da ogni etichetta. Per cominciare da essere “figlio di”: in pochi sapevano che era figlio di un noto editore fiorentino. Nemmeno voleva essere considerato un regista fiorentino - con la città aveva un rapporto conflittuale perché molti dei suoi film non sono mai stati presentati a Firenze fino ad una sua retrospettiva, due anni fa - né tanto meno di essere toscano o italiano. Il suo è un cinema nomade e apolide. Un cinema orgogliosamente indipendente che non ha mai voluto rincorrere dei budget più ampi proprio per non rischiare di perderci la propria anima.

Persona schiva ma affabile, Corso Salani rimane un esempio per le attuali e future generazioni di cineasti. In un momento storico per il paesaggio audiovisivo italiano in cui cresce un rifiuto sempre più diffuso della mediocrità e della volgarità televisiva, in cui la crisi del cinema (causata soprattutto dal disprezzo manifestato di chi lo dovrebbe promuovere) viene temperata dall’avvento del cinema del reale (più di 20 documentari distribuiti quest’anno tra cui alcuni “successi”: "La Bocca del Lupo", "Draquila", "Giallo a Milano"...), il messaggio lasciato da Corso Salani è essenziale. La fiction può a volte raccontare con più acutezza la realtà, così come la realtà contiene in sostanza la materia prima di ogni racconto. L’uno si nutre dell’altro e sono indissociabili. Tuttavia il termine di docufiction, spesso usato per il cinema di Corso, non potrà mai bastare a stabilire i limiti della sua estetica.

Il suo film più cinematografico, forse il più compiuto, "Occidente", inizia con delle immagini della rivoluzione rumena del 1989 girate dallo stesso Salani per il suo Eugen Si Ramona. Questo incipit è fondamentale per spiegare il malessere della sua protagonista, il profondo trauma che l’ha portata ad emigrare. Non solo ma il personaggio interpretato da Corso insegna italiano agli stranieri così come ha davvero fatto a Varsavia per un breve periodo. Nel suo ultimo film, il bellissimo "Mirna", altro film che tende piuttosto alla fiction, non c’è un solo dialogo… se non quello a distanza fra due voci: quella off di un’italiana che non si vedrà mai e quella di un argentina che si segue dall’inizio alla fine e che parla anche volentieri alla telecamera, alla sua amante, a noi… a Corso? Come un documentario su una donna che cerca il suo posto, geografico e mentale, nel mondo.
Al termine del suo viaggio, Mirna sembra raggiungerlo. Nella sequenza finale in cui la telecamera gira attorno alla donna visibilmente serena, un’ombra (dell’operatore Salani, della microfonista?) si staglia su di lei. Curioso errore tecnico visto che non succede mai in precedenza; preferisco vederci la firma di Corso che condivide con il suo personaggio una certa quiete: quella di un artista che, pur ponendo infinitamente più domande delle risposte che dà, pur nella precarietà delle sue scelte (professionali…) ha trovato il non luogo dove sentirsi a suo agio, dove sentirsi a casa propria prima di chiudere la porta.

05/08/2010, 14:25

Alain Bichon