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Note di regia del documentario "Matar es mi Destino"


Note di regia del documentario
Ha scritto Robert Bresson: “I film di CINEMA sono documenti storici da riporre negli archivi…”; questa frase presenta alcuni elementi di ambiguitŕ, non casuali. Bresson, distinguendo tra Cinema e Cinematografo, sottolineava la differenza tra quello che definiva “teatro fotografato” e il cinematografo vero e proprio; “Chiamerai bello il film che ti darŕ un’alta idea del cinematografo”.
Si potrebbe pensare che l’idea bressoniana di riporre i film di CINEMA negli archivi sia riservata alle opere che non appartengono alla sfera del “cinematografo”: ma non č esattamente cosě. In realtŕ ritengo che il grande regista francese intendesse sottolineare la potenzialitŕ dei film – tutti i film, comunque e dovunque realizzati – di divenire documenti storici, di porsi come testimonianza precisa di un’epoca. Ciň che suggeriva anche Boris Ejchenbaum quando scriveva: “Le arti come tali, come fenomeni della natura, non esistono; esiste il bisogno d’arte proprio dell’uomo, soddisfatto in varia maniera nelle varie epoche, presso i vari popoli, in vari ambienti culturali”. Come č noto sono tre i “tempi” di ogni film: quello in cui esso č girato (immutabile nel corso della storia), quello in cui č ambientato (altrettanto immutabile) e quello della fruizione, in perenne trasformazione. Non vediamo le cose come le vedevano i nostri nonni né i nostri figli le vedranno come noi. Un’opera, sottolinea lo storico Marc Ferro, “…puň essere letta in vari modi, addirittura contrari, in momenti diversi della sua storia.”
Il cinema di un tempo non viene piů prodotto, ma continua a esistere nelle copie conservate presso le cineteche – le gloriose cineteche, molte delle quali sopravvivono per i sacrifici personali di uomini e donne i cui sforzi non saranno mai lodati a sufficienza – e quel cinema, oggi, ci fornisce indizi inequivocabili - pur se di complessa decodifica - del contesto culturale in cui un’opera fu concepita, ovvero su ciň di cui siamo tutti figli, ci piaccia o meno.
In tal senso il caso del regista palermitano Pino Mercanti č emblematico.
Quando mio padre, Antonino Massa, classe 1907, produsse nel lontano 1969 il film The underground – Il clandestino - conosceva giŕ da parecchi anni il regista Pino Mercanti; suo fratello Oscar, mio zio, che fu a lungo dirigente del Teatro Massimo di Palermo e che aveva sposato la sorella della moglie di Mercanti (una cantante lirica: in tal veste appare in una scena del film I cavalieri dalle maschere nere), aveva diretto l’orchestra per due dei film girati a Palermo ai tempi dell’O.F.S.
L’Organizzazione Filmistica Siciliana, fondata dai fratelli Gorgone, rappresenta ancora, per molti versi, un mistero. Ciň che ne sappiamo č stato documentato soprattutto da Nila Noto, l’unica, a quanto mi risulta, ad aver effettuato studi specifici, anche per il rapporto epistolare che – da storica – coltivň con Pino Mercanti, che con la produzione dell’OFS realizzň tre film: Malacarne (il cui titolo di lavorazione era Oltraggio all’amore e che venne sottotitolato col nome del protagonista, Turi della tonnara), I cavalieri dalle maschere nere (liberamente tratto da I beati Paoli di Luigi Natoli e con quel titolo inizialmente lanciato) e, infine, Il principe ribelle.
Su questi film converrebbe soffermarsi piů estesamente di quanto queste brevi note mi consentano, ma vanno sottolineate almeno alcune interessanti prospettive di ricerca per chi voglia, con paziente lavoro da storico, tentare un approfondimento. Ad esempio i cambiamenti imposti dalla distribuzione - come testimoniato da Nila Noto - al film Malacarne, sia nel titolo sia nel finale, trasformato, con l’aggiunta di una scena appositamente girata, da tragico in happy end. Non era una procedura nuova: Murnau ne aveva fatto le spese nel 1924, quando aveva realizzato Der lezte Mann (L’ultima risata o L’ultimo uomo).
Ciononostante il film giŕ nel 1946 raggiungeva un duplice risultato: intuire la parallela ricerca del nascente neorealismo (in particolare per la scelta delle location, una vera tonnara, un vero porto di pescatori, le strade del paese di Castellammare del Golfo, etc.), anticipare per certi versi il melň, che negli anni ’50 avrebbe raggiunto i suoi piů alti risultati, e persino, per un certo svolgimento della vicenda narrata, il Renč Clair di Le grandi manovre, che anni dopo avrebbe affrontato lo stesso soggetto con una levitŕ forse impensabile nell’immediato dopoguerra.
C’č poi il caso dei due film successivi, I cavalieri dalle maschere nere e Il principe ribelle, girati uno di seguito all’altro con lo stesso cast, gli stessi costumi, analoghe location e persino una storia che sembrava quasi continuare da un film all’altro. In altre parole, sembra che la logica seriale del feuilleton - cosě acutamente analizzata da Umberto Eco - sia ripercorsa come preciso processo produttivo. Mercanti ripeterŕ l’esperimento, a distanza di parecchi anni, quando nel 1964 girerŕ uno di seguito all’altro due cosiddetti “spaghetti western”, Le maledette pistole di Dallas e Tre dollari di piombo: stesso cast, stessa troupe, stesse location (la Jugoslavia), stessa produzione (Tellus cinematografica, subito dopo scomparsa); singolare anche la decisione di firmare i due film, uno con lo pseudonimo di Joseph Trader (che č la traduzione letterale di Pino Mercanti), l’altro lasciando che se ne assumesse la paternitŕ un vero regista spagnolo, Jose Maria Zabalza, sorta di alter ego occasionale necessario ad ottenere i benefici previsti dalla legge spagnola. Le maledette pistole di Dallas uscě nelle sale il 5 dicembre 64, soltanto tre mesi dopo il famoso capofila del western italiano, Per un pungo di dollari; Tre dollari di piombo arriva esattamente due settimane dopo, il 19 dicembre dello stesso anno; inoltre – notazione interessante dal punto di vista delle scelte distributive dell’epoca (e non solo) - va ricordato che solo un anno prima a Dallas era stato assassinato il Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, il che aveva suggerito a molti che quel titolo - Le maledette pistole di Dallas – nascondesse una sorta di “istant movie”, mentre si trattava di un classico “B movie”, uno di quei film che tanto hanno affascinato Quentin Tarantino. Dunque quanto sperimentato con la O.F.S. negli anni confusi e pieni di speranza del dopoguerra si protende fino alla metŕ dei ’60 e oltre, delineando la precisa volontŕ di contribuire a costruire un metodo di lavoro. Tale metodo presentava alcune caratteristiche particolari, rispetto alla media della produzione italiana dell’epoca; ad esempio la collaborazione tra produttore e autore del film. Scrive Lucilla Albano: “La figura del regista in Italia verrŕ effettivamente definita a partire dal cinema sonoro e sotto il regime fascista e prenderŕ corpo attraverso la sperimentazione e l’esercizio dei diversi generi e delle differenti forme narrative e modelli produttivi…” E poco oltre si dice che il giovane Blasetti auspicava “…uno stretto rapporto tra concezione estetica, politica cinematografica, ripresa produttiva e intervento statale.” 
Sembra una descrizione dell’esperimento che i fratelli Gorgone, insieme a Mercanti, tentarono subito dopo la guerra. La parabola dell’O.F.S. si svolge tra il 1946 e il 1949; poi la societŕ scompare definitivamente dalla scena italiana, svendendo le attrezzature raccolte - in alcuni casi progettate e costruite - nel corso degli anni. Per quale motivo il Banco di Sicilia abbia chiesto improvvisamente il rientro dell’esposizione non č dato sapere. Solo una ricerca approfondita negli archivi di quella Banca – se ancora esistono documenti, dopo tanti anni – potrebbe svelare l’arcano e aiutarci a comprendere un fenomeno che ha avuto influenze nefaste su tutta la storia dell’Italia del dopoguerra: la maggior difficoltŕ delle imprese siciliane a ottenere credito (a tassi accettabili) dagli istituti bancari, analogamente a quanto potevano sperare gli industriali del nord e centro Italia. Troverete pochissimi accenni, nei libri di storia del cinema, a quella casa di produzione (ma, in generale, va detto che la storia dei produttori italiani č ancora da scrivere). Sta di fatto che la scomparsa della O.F.S. si č accompagnata alla parallela rimozione della sua memoria storica e che per ritrovare una iniziativa di produzione cinematografica stabile (pur nella precarietŕ) in Sicilia, si deve saltare al 1971, anno in cui nasce la Cooperativa Lavoratori del Cinema e del Teatro, peraltro figlia di quel tentativo imprenditoriale che il documentario Matar es mi destino vuole raccontare. Ma questa č un’altra storia.
Anche sul regista Pino Mercanti troverete pochissimo. Ed č un peccato. Molte sono le scoperte che scaturirebbero dallo studio approfondito non solo di questo regista dimenticato, ma di molti cineasti cancellati inopinatamente dalla memoria: e intendo non solo i registi, ma alcuni loro collaboratori.
Per restare al caso dei film di Mercanti basti citare Edmondo Affronti (aiuto regista, direttore della fotografia e attore) Gino Morici (costumista), Pietro Ferro (musicista), Pietro Portalupi (direttore della fotografia), Peppino Piccolo (scenografo), Gioacchino Angelo (musicista) etc. Nomi che ai piů forse non dicono nulla, ma che hanno attraversato mezzo secolo di storia del cinema italiano, popolare e “colto”.
C’č poi il versante location: i film girati da Mercanti in Sicilia (almeno quelli di cui c’č rimasta copia, cioč i tre prodotti dalla O.F.S. e Agguato sul mare) costituiscono una vera e propria “topografia” siciliana, di notevole valore. Innanzitutto la vita nella tonnara, descritta dapprima in Malacarne e poi, a colori, in Agguato sul mare; si tratta di alcuni tra i primissimi documenti sulla mattanza arrivati sino a noi, se si escludono le immagini – ancora mute – che l’Istituto Luce realizzň a Favignana negli anni ’20 e ’30; in ogni caso, per la prima volta, grazie alle parallele iniziative della Panaria film, viene mostrato l’interno della camera della morte. Ma ci sono i luoghi di Palermo che diverranno famosi – anni dopo – proprio per aver ospitato troupe cinematografiche e che i film di Mercanti testimoniano con largo anticipo: Palazzo Ganci, Palazzo Villafranca, Palazzo Valguarnera (a Bagheria), S. Giovanni degli Eremiti, Palazzo dei Normanni, Porta Felice, la chiesa della Martorana, la panoramica sulla Conca d’Oro vista dalle colline adiacenti, le campagne dell’interno, l’Etna, i templi di Agrigento, etc. Materiale prezioso per chi volesse “visualizzare” le trasformazioni del territorio siciliano – e palermitano in particolare – degli ultimi sessanta anni. 
Prima di dedicarsi al cinema cosiddetto “di genere” Mercanti realizzň interessanti produzioni, ispirate piů al “mito” che alla
storia, in ciň cogliendo il senso piů profondo del cinema: d’altronde giŕ nel marchio della O.F.S. (che citava il Tempio di Castore e Polluce, ad Agrigento e richiamava, nel delfino che completa il cerchio, il ritorno a uno stato dal quale si puň emergere rinnovati) c’era un forte richiamo al mito, come la stessa Nila Noto ci ha ricordato (in un brano non presente nel documentario).




Oltre ai citati Malacarne e I cavalieri dalle maschere nere, vanno inoltre menzionati La carovana del peccato, intenso melodramma ambientato in una terra senza nome che evocava, tra le righe, tematiche legate alla Sicilia ormai lasciatasi alle spalle e Agguato sul mare, ispirato al mito di Glauco e Scilla (il film, tra l’altro, fu l’ultima produzione di Francesco Alliata di Villafranca e Pietro Moncada, nonché l’ultimo girato da Mercanti in Sicilia).
Ma se provate a guardare negli indici dei nomi dei maggiori libri di storia del cinema italiano, troverete qua e lŕ qualche accenno al cinema di Mercanti solo quando si elencano i film di genere degli anni ’60 o, talora, persino per citare film che potrebbero essere ascritti all’opera di un ligio esecutore delle volontŕ dei governi in carica, piuttosto che a un ricercatore formale che, pur avendo accettato un ruolo di professionista del mestiere cinema, non rinunciň a sperimentare con la macchina da presa; si vedano a tal proposito alcune soluzioni formali dei Cavalieri dalle maschere nere (il duello visto attraverso le ombre dei contendenti), la sparatoria notturna di La carovana del peccato e, nello stesso film, la insinuante e provocatoria sensualitŕ delle lavoratrici (si pensi all’anno: 1953); e ancora si potrebbe sottolineare l’utilizzo di certi piani sequenza, ad esempio il carrello che attraversa, avanti e indietro, le sbarre di una segreta durante un duello alla spada in Il Duca nero o l’interessante uso del montaggio e della musica di Riz Ortolani nel film di spionaggio del 1966 Cifrato speciale.
Nel corso di poco piů di un trentennio (tra la fine degli anni ’30 e il 1970) diresse 22 film e un numero imprecisato di documentari, molti dei quali perduti, collaborň a vario titolo a film e sceneggiati televisivi diretti da altri e coltivň il grande sogno del cinema siciliano.
Un sogno, come ha detto Turi Vasile, destinato a fallire.
Come destinata al fallimento fu la produzione, nel 1969-‘70 di The underground. Mio padre, che aveva fondato la societŕ Zephiria con l’intento di realizzare una serie di film (proprio come la O.F.S. trenta anni prima), si ritirň definitivamente dopo quell’unica produzione, a cui sopravvisse per 34 anni; concluse la sua lunga e difficile vita nel 2004, a 97 anni di etŕ. Era nato nel 1907, l’anno in cui Joyce concepě il racconto I morti, da cui esattamente 80 anni dopo John Huston avrebbe tratto un film epocale con il quale prendeva congedo dalla vita e dal cinema. Un film di cui mi sono ricordato, quando ho voluto che fosse Francesco Carnelutti a leggere, come voce off, il testo scritto per il documentario Matar es mi destino.
Forse il film che mio padre e Mercanti realizzarono insieme arrivava fuori tempo massimo: il 1968 era passato come un vento mitico su ogni cosa e aveva cambiato – piaccia o meno – il gusto del pubblico. L’intuizione era giŕ presente nel film di Leone C’era una volta il west, quando, poco prima del duello finale, mette in scena il seguente dialogo tra i due protagonisti:
“Cosě hai scoperto che dopo tutto non sei un uomo d’affari.”
“Soltanto un uomo.”
“Una razza vecchia. Verranno altri Morton e la faranno sparire.”
Era proprio cosě: un intero mondo stava scomparendo e, ancora una volta, era una forma di espressione artistica che ce lo suggeriva, sebbene pochi se ne accorgessero.
Ma non č il caso di rimpiangere alcunché.
Come ha detto lo storico dell’architettura Manfredo Tafuri “… se fossimo veramente decisi a eliminare l’ansia, allora ci renderemmo conto che la storia serve a dissolvere la nostalgia, non a ispirarla.”

Giovanni Massa