Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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Intervista al regista Marco Filiberti sul film "Il Compleanno"


Intervista al regista Marco Filiberti sul film
Quale è stata la genesi del film?
Marco Filiberti: Due le cellule sulle quali ho costruito il progetto: la luce abbagliante della spiaggia di Sabaudia, percepita come figura di una bellezza che stordisce ma non rivela, e un accostamento profondo con il mito scandaloso di Tristano e Isotta riletto da Wagner, espressione parossistica dell’ineluttabilità del destino attraverso i percorsi dell’inconscio. Riunite dentro di me queste prime istanze, lo sviluppo della scrittura drammaturgica e visiva è stato scorrevole e fisiologico e tutti i sottotesti hanno preso corpo da soli, magicamente.

Da un punto di vista dei generi, come definiresti il tuo film?
Marco Filiberti: Il “colore” del film è quello del dramma, la sintassi è quella del mélo. Quindi la definizione di “melodramma” mi sembra davvero pertinente, anzi parlerei di “melo contemporaneo” perché, all’interno di una dialettica melodrammatica sentita e attuata scrupolosamente (il film lo sento come un omaggio a Douglas Sirk) ho proceduto tutto in sottrazione, verso l’abisso di silenzio e omertà che definisce il clima del film, soprattutto nella seconda parte. Quello che voglio dire è che se solitamente la dialettica melodrammatica è tutta fuori, nel "Il compleanno" è invece molto “dentro”.

La cornice naturale sembra essere molto importante in questo film. Perché la scelta di Sabaudia e del Circeo?
Marco Filiberti: La cornice dove ho ambientato il film, è la spiaggia di Sabaudia ai piedi del Monte Circeo, spazio denso di suggestioni epiche e mitologiche intrise di seduzioni, come quella subita da Ulisse da parte della maga Circe. L’epos è presente in modo inequivocabile nel mio lavoro, è una delle funzioni da me più usate per suggerire un secondo piano di lettura, un altrove che amplifichi il senso di ciò che cerco di fare. Ma Sabaudia è anche un nome che ha rappresentato un “mondo” importantissimo nella recente storia italiana: qui negli anni Settanta, alcune tra le voci più importanti della nostra cultura (basti pensare a Moravia, Pasolini, Bertolucci e la Maraini) si davano appuntamento e qui sono nate opere fondamentali per il cinema e la letteratura di quegli anni. Di quel clima e dei suoi valori estetici e culturali, i protagonisti del mio film hanno nostalgia, una nostalgia che rimanda alla loro adolescenza, ma anche, indirettamente, a quello che è stato l’ultimo momento possibile di una classe intellettuale, portatrice di istanze capaci di compenetrarsi con la società. Mi emoziona molto l’idea che questo film possa essere letto come una metafora dell’occidente o anche solo del mio Paese, teatro di passività e di omertà.

Anche la musica sembra avere una funzione drammaturgica...
Marco Filiberti: La suggestione di una sensualità mediterranea fortemente italica si intreccia nel film con un mito decisamente mitteleuropeo, archetipo fondamentale della civiltà romantica, il binomio Amore-Morte, eternato da Wagner nel Tristano e Isotta che è il leitmotiv drammaturgico e musicale della storia. Quindi, musicalmente, la doppia nostalgia che pervade il film (quella mitologica, ancestrale e quella storica degli anni Settanta) si evince dall’accostamento della musica del compositore tedesco con alcuni successi della musica leggera italiana di quegli anni. In questo clima da “Grande Freddo”, le canzoni presenti attraverso i dischi in vinile o nel rimando interno dei protagonisti, hanno sempre uno stretto legame funzionale al momento emotivo o allo sviluppo drammaturgico dei personaggi. La musica originale di Andrea Chenna invece, ha una funzione più specificatamente narrativa, legata da sottili rimandi ai sottotesti wagneriani.

Come si è svolto il lavoro con gli attori?
Marco Filiberti: Con ognuno di loro è stato un lavoro specifico, nel rispetto delle diverse sensibilità. Con Massimo Poggio, c’è stato un avvicinamento (anche se dopo un provino folgorante) più delicato, con cautela, perché sapevo di dovergli chiedere moltissimo e il ruolo di Matteo ad un attore può fare molta paura. Con Alessandro Gassman più di getto, perché quella di Diego è una tipologia che rientra facilmente nelle sue corde, anche se lo ha molto umanizzato, portando alla luce il suo lato infantile, a suo modo irresistibile. Maria de Medeiros ha capito subito che la dolcezza di Francesca è la sua forza, la sua chiave. Abbiamo spesso discusso sul suo totale candore, io lo difendevo (perché credo nell’esistenza di creature quasi incontaminate), Maria lo relativizzava. Poi però, quando girava, era pura come una bambina che ancora non ha visto il male del mondo. Michela Cescon è l’attrice che abbandona tutto per diventare un’altra cosa. Abbiamo costruito insieme il look di Shary e, dopo avere “ucciso la Cescon”, tutto si è sbloccato partendo da un suono, la risata di Shary: sì, possiamo dire che da un suono è emerso il personaggio, come per le “boules de neige” a contatto con l’acqua. A Christo Jivkov ho regalato il ruolo che avrei fatto io, vinto dal silenzio doloroso del suo viso e dal suo essere anche regista, abbiamo lavorato insieme in modo strano: telefonate fuori orario dove mi diceva dei segreti su Leonard. Ora, per la versione italiana, la mia voce è sul suo viso. Piera Degli Esposti è un pezzo di cinema e di cultura italiana, ma non è un monumento: è una donna viva, con un’emotività a fior di pelle che al primo incontro conosceva già anche tutti gli altri ruoli, e aveva immediatamente capito molte cose “al di là” del testo. Mi avevano detto che non si lascia dirigere: non è affatto vero, Piera adora essere guidata, anche se lei abita un “altrove” che è bello non voler indagare troppo. Infine Thyago Alves, è stato scelto tra un migliaio di ragazzi tra Milano, Parigi e Roma. Quando arrivavano, li guardavo solo attraverso un monitor, il primo che mi dava una “scossetta” avrebbe fatto i provini. Lui è arrivato timido, impacciato e bello come il sole. Il giorno dopo, mi ha portato sei scene a memoria. Non aveva mai recitato in vita sua, ma era già abituato all’obiettivo. L’ho tenuto in sospeso per due anni e ha fatto nove provini su parte. All’ultimo è arrivato a Roma, sicuro che scegliessimo un altro, demotivato e stanco, è lì che ha vinto. E’ un ragazzo d’oro e gli auguro tanto successo.

28/08/2009, 14:32