Fondazione Fare Cinema
!Xš‚‰

Note di regia del film "Gli Amici del Bar Margherita"


Note di regia del film
Amo troppo il cinema per non farlo più possibile, con caparbietà e insistenza.
Il cinema ha pervaso di sé l’intera nostra esistenza (intendo quella mia e di mio fratello) permettendoci di farlo con la continuità che ci segnala tra i più prolifici. Questa continuità la si alimenta soprattutto con nuovi stimoli, nuove suggestioni, con la necessità di essere condotti al termine di ogni vicenda sempre dall’altra parte del mondo. In un altrove.
Così oggi spalanco le finestre di quel tetro appartamento di via San Vitale dove il papà di Giovanna ha vissuto la sua dolorosa vicenda umana e la luce piena del giorno che inonda l’appartamento è accompagnata da una nuova colonna sonora fatta dal rombo delle utilitarie e delle canzonette della neonata San Remo dell’incombente boom. Siamo nel pieno degli anni Cinquanta e io sedicenne somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si prenda la briga di richiamarmi alla ragionevolezza. Ho l’età dei miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente. Tutti insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro.
Perché non rammentare quegli anni se è sufficiente traversare la strada per raggiungere il Bar Margherita, quel santuario nel quale la società dei maschi, che teneva ancora asservita la donna in qualsivoglia suo ruolo, regnava impunemente?
Perché non alzare la saracinesca di quel locale nel quale la mia memoria ha trattenuto intatti, preservati dalle ingiurie del tempo, quell’insieme straordinario di eroi sciocchi, che tuttavia furono per gran parte della mia giovinezza i modelli ai quali mi ispirai?
Perché non ridare vita al padrone del bar, quel Walter che tutti chiamavano Water esasperandolo, o quell’Al che consumava le notti fra lasagne e puttane o quel Manuelo che bendato, senza toccare il freno, traversò via Murri su un’Ardea Lancia o quel Gian che partì col padre per cantare a San Remo o quel Bep che non si presentò al suo matrimonio per fuggire con una entreneuse dell’Esedra?
Perché non restituire alla loro grandezza quel Mentos che si bevve un’intera bottiglia di cognac o quel Sarti che truffava preti e suore o quel Pus afflitto da una costellazione di foruncoli o quel Zanchi che inventò la prima cravatta con l’elastico?
Perché non celebrare quel tempo e quella pattuglia di eroi ai quali era sufficiente la messa in commercio degli occhiali K, con i quali si vedevano le donne nude, per dare senso ad un’intera estate?
E soprattutto perché non celebrare questi nostri quarant’anni di cinema sorridendo di noi stessi, della nostra superlativa ingenuità?

Pupi Avati