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Intervista a Claudio Lazzaro sul DOC "Camicie Verdi"


Questa settimana pubblichiamo una interessante intervista con Claudio Lazzaro, giornalista e documentarista, con esperienze anche di inviato di guerra. Abbiamo parlato del suo documentario "Camicie Verdi" sul fenomeno della Lega Nord e della situazione cinematografica in Italia.


Intervista a Claudio Lazzaro sul DOC
Come è nata l'idea per la realizzazione del documentario "Camicie Verdi"?
Claudio Lazzaro: Quando me ne sono andato dal Corriere della Sera, due anni fa, avevo un obbiettivo: vedere se fosse possibile raccontare, utilizzando le nuove tecnologie e i nuovi canali distributivi, quello che la televisione non racconta. La Lega Nord non si era mai vista in televisione o al cinema - intendo dire vista dall’interno, nella sua realtà - per una ragione molto semplice: quando ti aggiri con una telecamera in mezzo ai leghisti viene fuori subito la natura anti-Stato, il dna eversivo del loro movimento. Loro cantano: “E noi che siamo padani/abbiamo un sogno nel cuore/bruciare il tricolore/bruciare il tricolore”. La Lega per cinque anni è stata al governo con Berlusconi e queste cose non si potevano mostrare. Gli Italiani erano chiamati al voto referendario sulla devolution, voluta dalla Lega. Ma non avevano informazioni sulla Lega e su chi fossero veramente quelli che stavano cercando di venderci e di imporci la devolution. Il film è uscito due mesi prima del referendum. Ho fatto un sito http://www.camicieverdi.com per distribuirlo in rete. Sono andato in giro, dalla Padania al Sud, per le proiezioni e i dibattiti. E’ uscito in libreria e anche in edicola, con l’Unità. Ha vinto un premio a Locarno come “film civilmente più significativo”. Insomma, a qualcosa dev’essere servito.

Cosa ha voluto mostrare, in particolare, di questo movimento politico?
Claudio Lazzaro: Gli aspetti più inquietanti. L’opzione politica violenta, sempre latente, la xenofobia, il razzismo. Intendiamoci, molti leghisti sono persone assolutamente perbene, semplicemente spaventate dal cambiamento, dalla globalizzazione, da un’immigrazione gestita male. Persone che hanno paura perché non trovano più le certezze e i riferimenti del passato. La cosa brutta è che su questa paura, fomentandola in modo irresponsabile, alcuni leader leghisti costruiscono la loro carriera.

Ci può raccontare qualcosa in più su Borghezio e Gentilini che non appare nella pellicola?
Claudio Lazzaro: La cosa che più mi ha preoccupato è che Borghezio e Gentilini, di persona, sono, a modo loro, simpatici. Terrificanti, nella sostanza politica, ma gentili e volonterosi nel modo di fare e di porsi. Poi, quando salgono su un palco si trasformano e dalla loro bocca esce di tutto, si esaltano, la loro aggressività diventa intollerabile. Eppure, quando ci parli, non sembrano assolutamente persone cattive o malintenzionate. Questo mi ha fatto riflettere sulle teorie di Hannah Arendt che ha scritto alcune pagine fondamentali sulla “terrificante normalità del male”.

Cosa ha curato maggiormente nella regia del documentario?
Claudio Lazzaro: Non volevo usare uno stile “cattivo”, alla Michael Moore (che pure è un grande). Volevo lasciarli parlare, fare in modo che fossero loro a rappresentarsi e se vogliamo, dal punto di vista mediatico, a scavarsi la fossa. Mi sono sforzato di avere un occhio sereno, curioso, di non essere prevenuto. Non mi interessa disprezzare, mi interessa capire. Non odio la Lega e non odio Borghezio. Quando assisto alle proiezioni, tutte le volte, nel punto in cui Borghezio si ritrova all’improvviso in un letto d’ospedale, scoppia l’applauso. Il pubblico solidarizza con gli autonomi che hanno beccato Borghezio sul treno e l’hanno quasi linciato. Io tutte le volte, nel dibattito che segue, dico che se mi fossi trovato sul quel treno avrei difeso Borghezio, gli avrei fatto scudo. Perché la violenza è da cretini. Borghezio bisogna vincerlo politicamente, riuscendo a comunicare meglio di lui con quelli che votano Lega

Quali sono state le reazioni del mondo politico, in particolare dei leghisti riguardo all'uscita di "Camicie Verdi"?
Claudio Lazzaro: Il documentario è piaciuto a sinistra. Commentatori come Mario Pirani, Furio Colombo, Luciana Castellina, hanno scritto che quello che ho fatto io, da solo e coi soldi della mia liquidazione, avrebbe dovuto farlo la televisione di Stato. I giornali hanno parlato molto del film, le televisioni quasi niente. Prudenza totale. Solo La 7 mi ha invitato al telegiornale delle otto. E solo Rai Sat Cinema, del bouquet Sky, ha mandato in onda Camicie Verdi, in prima serata (ma quando la Lega non era più al governo). Per quanto riguarda i politici, da sinistra non mi sono arrivati commenti né tantomeno elogi. Non essendo io organico ad alcun partito, è perfino possibile che il film sia stato visto con una qualche diffidenza. Io giravo l’Italia, prima della devolution, e coi miei dibattiti facevo un lavoro d’informazione che era anche un lavoro politico. Ma nessuno, nel palazzo, sembrava accorgersene. Tranne la Lega. Sul loro giornale, La Padania, vengo definito “servo dei rossi” e Bossi, in un’intervista, si è scomodato a darmi del bugiardo.

Come un giornalista come lei è diventato un documentarista per il cinema?
Claudio Lazzaro: E’ stata la voglia di cimentarmi con un altro linguaggio. In Italia a leggere i quotidiani sono in cinque milioni, sempre lo stesso club. Lavorando con le immagini si può provare a raggiungere quelli che non leggono il giornale. E poi mi piace il cinema, mi piacciono le arti figurative. E i tempi sono maturi: le nuove tecnologie rendono possibile il tentativo di fare un’informazione libera, fuori dai canali distributivi controllati dal potere economico e politico. Ci si può provare, senza farsi troppo illusione, perché quei poteri, fino a quando le leggi non cambiano, hanno ancora i mezzi per stroncare la libera informazione. Quando uno è molto, ma molto ricco, può sguinzagliarti dietro i suoi studi legali, farti causa per miliardi e mandarti a vivere nei cartoni.

Cosa si porta dentro della sua esperienza giornalistica come inviato di guerra?
Claudio Lazzaro: Il disgusto. Ho seguito alcune guerre: Somalia, Kossovo, Irak. Posso dire che non hanno prodotto alcun effetto positivo, anzi secondo me hanno fatto più male che bene. In ogni caso quando sei lì vedi solo il male, vedi gente innocente, che non c’entra niente, bruciata viva, donne, bambini, nelle loro case, senza potersi difendere, nemmeno dalle bugie e dalla mostruosa ipocrisia che produce e circonda questi eventi criminali. La guerra fa soltanto schifo. Nei miei reportage queste cose venivano fuori. Ma capirai la novità. Non c’è bisogno di farsi ammazzare al fronte o sequestrare da Al-Qaida per dire cose del genere. Già tutti le sanno. Poi quando torni in Italia e vuoi fare un’inchiesta su qualcosa di schifoso che accade da noi, e che la gente non sa, allora magari nascono i problemi. Se non sei uno “affidabile”.

Cosa vuol dire fare il "documentarista" nel nostro mondo contemporaneo?
Claudio Lazzaro: Vuol dire fare il giornalista, e fare il narratore. Truman Capote, in letteratura, ha mostrato come le due cose si rafforzino a vicenda. Con il suo capolavoro, "A Sangue Freddo", ha reinventato il romanzo e il reportage. Il cinema documentario ha un potenziale enorme. Di sicuro troverà i suoi Capote.

Come crede si possa migliorare la distribuzione delle pellicole in sala?
Claudio Lazzaro: Bisogna superare la copia in pellicola. Distribuire i film via satellite o comunque sul supporto digitale. Per fare un documentario in libertà devi farlo a basso costo, quindi girarlo in video. Ma il passaggio su pellicola, se lo distribuisci nel modo tradizionale, costa quanto l’intero budget del film. Un controsenso. Lo stesso vale per il cinema indipendente. Per fortuna il numero dei cinema forniti di videoproiettore sta aumentando e c’è anche un piccolo circuito, Microcinema, che comincia a distribuire via satellite.

Come considera il panorama cinematografico italiano attuale?
Claudio Lazzaro: Sono d’accordo con Tarantino. E’ un cinema senza coraggio, che non sa stupire, non sa provocare. In una società come la nostra, dove, per fare, si è costretti a cercare l’appoggio di un partito, di una corrente, di un “ambiente”, di una cordata, di una loggia, di una lobby, di un gruppo di potere, hai l’impressione che l’autore si senta gli occhi addosso, controllato: fa la cosina che deve, facendo bene attenzione a non allargarsi, a non farla fuori dal vaso. Ma il capolavoro, quasi sempre, ha qualcosa di eversivo, nei contenuti o nella forma. Fellini, quando fece La dolce vita, all’uscita dal cinema, a Milano, gli sputarono addosso. Il pubblico si era sentito offeso dalla provocazione insita in quel suo film. Oggi chi ha il coraggio di farsi sputare addosso? Chi mai avrebbe il coraggio di produrre un film con quella carica di provocazione? Rai? Mediaset? Il ministero dello Spettacolo? Non credo. Non ci sono più i capolavori perché non c’è la libertà di farli, e nemmeno di pensarli. Quando sai che la committenza è quella (Rai, Mediaset, Governo), quando sai che la lottizzazione politica che spreme le reti pubbliche e private si è trasferita paro paro nel cinema, allora inevitabilmente i tuoi spazi di fantasia si restringono e finisci col realizzare uno sceneggiato televisivo, magari anche di buona fattura. Ma non fai La dolce vita. Mai più.

01/10/2007

Simone Pinchiorri