Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
!Xš‚‰

Intervista a Roberto Cimatti sul film "Il Vento fa il Suo Giro"


Intervista a Roberto Cimatti sul film
La troupe del film "Il Vento fa il suo Giro"
Qual è stato il percorso di formazione da te intrapreso che ti ha portato a diventare il professionista che sei?
Roberto Cimatti: Devo ammettere che quando qualcuno pronuncia la parola “professionista” mi viene subito un pensiero “ma sta parlando di me?”. M’immagino un tipo in pantofole, un po’ stile pensionato che, sicuro di sé, sente di poter fare quello che gli pare. Il titolo di un libro di poesie, “Giorni in Prova”, scritto da Emilio Rentocchini, forse riesce a rappresentare al meglio il mio pensiero. Ogni giorno per me, in effetti, è sempre una prova: prova di fronte alla vita, da quando da piccolo hai fatto il tuo primo gradino, allo stesso modo, ogni volta che vado per fare un film, mi sento sempre e comunque in prova. Ogni volta che metto piede in un nuovo set è come se dovessi dimostrare a me, e alle persone che mi stanno a fianco, che sono in grado di fare qualcosa. E così è stato anche per il nostro film. La mia vita professionale la posso dividere in quattro momenti. Il primo è il periodo scolastico: fin da quando avevo quattordici anni mi sono interessato di fotografia, grazie ad un professore che ci aveva insegnato un po’ di cose su questa materia. Alle superiori ho fatto una scuola di tipo tecnico e posso dire che questi studi hanno fortemente influenzato quelle che sono state poi le mie scelte successive. Ho così indirizzato il mio interesse verso il Dams. Erano quelli gli anni dei movimenti studenteschi (’77 circa) e delle loro conseguenze nel sociale. Mi rendevo man mano conto che molti esami proposti non mi interessavano. Visto che il mio professore di Filmologia, Gian Vittorio Baldi, era anche produttore e regista a Roma, ho colto la palla al balzo per partecipare ad un suo film come volontario (’79). Nei successivi sette-otto anni ho fatto l’assistente operatore per molti “maestri” della fotografia, che davvero mi hanno insegnato parecchio. Nell’87 ho deciso di fare il salto e grazie all’aiuto di un direttore della fotografia, quale Roberto Meddi, fino ai primi ’90 ho ricoperto il ruolo di operatore di macchina per molti film di autori quali Moretti, Mazzacurati, Luchetti, Calopresti. L’ultimo passaggio, quello che mi ha portato ad essere un direttore della fotografia, è stato meno repentino. Tenendo conto che il gruppo della fotografia è composto da quattro o cinque persone (direttore della fotografia, operatore di macchina, assistente e aiuto), dove solitamente il direttore, responsabile del reparto, chiama le altre con sé nei vari film che fa, fare questo salto è stato per me più rischioso, in quanto andavo a perdere una tutela del mio capo reparto e la conseguente garanzia di lavoro. Cambiamento avvenuto a piccoli passi. Così per i tre anni successivi ho alternato esperienze come direttore della fotografia, e altre come operatore di macchina in film di amici o maestri. Lavorare in macchina mi è sempre piaciuto e continua a piacermi, soprattutto se non si tratta di un lavoro seriale.

Com’è nato per te il progetto “Il Vento fa il suo Giro”?
Roberto Cimatti: L’ipotesi del film si può dire sia nata alla fine del 2003, periodo in cui abbiamo iniziato a concretizzare il progetto, che molti anni prima Giorgio mi aveva accennato, consegnandomi la sceneggiatura. Per quello che è il mio modo di pormi, rispetto ai lavori, vivo molto male le occasioni in cui credo molto nel progetto, buttandomici anima e corpo per poi non essere realizzato. Questo per dire che la sceneggiatura che Giorgio mi aveva dato, non l’ho mai letta e mi sono trovato a conoscere il film, per la prima volta, in quel famoso incontro all’Aranciafilm. Mi piace l’idea di presentarmi davanti ad un progetto con occhio smarrito, spaesato, come cadendo inaspettatamente vittima di un “innamoramento” e dandomi, nel bene e nel male, una sensazione di stupore. Se capita che m’innamoro di un progetto, significa che quello è il momento giusto perché io lo faccia. Ecco perché non ho letto nulla della stesura, per non esserne anestetizzato.

Essendo stato questo film, da vari punti di vista, un investimento notevole, da professionista, è stata quindi questa la motivazione che ti ha spinto ad entrare nel gioco?
Roberto Cimatti: La cosa che mi ha fatto entrare pian piano nel progetto è stata quella di avere delle perplessità, ma anche l’esigenza di mettermi alla prova. La possibilità di confrontarmi con gli altri su varie situazioni che partivano già dall’inizio in modo sorprendente. Il fatto stesso di vedere appesa alla bacheca dell’Aranciafilm la foto di una persona, che io avevo conosciuto 10-15 anni prima in un ruolo prima di assistente operatore e poi di scenografo, che avrebbe fatto l’attore protagonista del film, già mi faceva capire che il tutto aveva dell’incredibile. Questo mi ha lasciato piacevolmente stupito e voglioso di vedere cosa ne sarebbe uscito. Una sfida senza fine proprio perchè riguardava da un lato la questione produttivo-economica, dall’altro il fatto che ci fosse un regista esordiente (malgrado l’avessi conosciuto un bel po’ di anni prima grazie ad un cortometraggio chiamato “Cappello da Marinaio”). Lo stupore stava anche nel non conoscere quasi totalmente la troupe (le maestranze, cioè elettricisti e macchinisti), ad eccezione di quello che era allora il mio assistente per molti lavori, cioè Andrea Vaccari, con il quale sarei andato a lavorare nella sua nuova veste di operatore di macchina. La sfida, in questo caso, stava nell’imbastire una collaborazione che coagulasse le forze più diverse in un’unica direzione, quella del film.

Com’è stata per te la convivenza lavorativa e non, con questa troupe, come dicevamo, prevalentemente composta da non professionisti?
Roberto Cimatti: Sono partito con la voglia di assaggiare gusti sconosciuti, magari col rischio che poi non mi piacessero: tendenzialmente mi piace provare cose nuove. In questo caso non sapevo bene a cosa andavo incontro. Non conoscendo i miei collaboratori, ma sapendo che la forza del film stava nel mettere insieme persone volenterose. Mi fidavo di Giorgio e del fatto che lui volesse fare, in modo pressante, ad ogni costo, questo film. D’altro lato ammetto che dentro di me sapevo che il film non era garantito, o meglio non era sicuro che arrivasse alla fine. Quando, guardando il piano di lavorazione, si parlava di 7-8 settimane di riprese, onestamente in cuor mio, ma chi ci credeva! Luoghi impervi, gente sconosciuta e per di più gli inaspettati due metri di neve della prima tranche, erano a conferma di questi miei dubbi. Ricordo che quando siamo saliti, in febbraio, per i primi ciack, la neve era quasi tutta sciolta e visivamente sembrava quasi di essere in primavera. Infatti, quelle prime scene girate in esterni, senza neve, in parte sono state rigirate durante la successiva e abbondante nevicata, o comunque sono state tagliate dal montaggio definitivo. Tornando alla troupe, avevo avuto modo di incontrare a Bologna, prima delle riprese, “Giò” il capo elettricista: un veterano che, pur non avendo lavorato molto sui set, di fotografia ne sapeva ed è stato per me un punto di riferimento importante anche rispetto agli altri. Nei giorni di preparazione, ad esempio, mi sono trovato a dover realizzare telai, utili a far convergere o diffondere le fonti luminose, e ho trovato l’aiuto di persone. Enrico, Cosimo, Alessio, Elisa, hanno dimostrato la volontà di andare oltre al fatto di essere lì per ricoprire il loro singolo ruolo, la volontà di esserci. Mi sono reso conto di avere accanto a me persone positive, che avrebbero fatto tutto con il cuore: dal portare cavi gelati, all’essermi d’aiuto qualora ci fosse stata una leggerezza da parte mia. C’è stata una collaborazione vera. Così mi sono reso conto che l’“effetto colonia”, ossia il vivere assieme a quaranta persone 24 ore al giorno, chiusi appunto in una colonia a 2000 metri d’altezza, stava contaminando tutto e tutti, nel bene e nel male. Era come stare in un piccolo paese, dove tutti sanno tutto ma dove ci si aiuta vicendevolmente. Quando si lavora in gruppo, non si può imporre la propria idea, come fosse un ordine, ma si deve dimostrare la forza stessa dell’idea: deve convincere gli altri. E’ anche per questo che il film è durato 14-15 settimane: ci si poteva trovare alle tre di notte a discutere del perché di certe scelte fatte, e di quelle da fare, e questo portava, con ancora più coesione, a credere nel film. Non eravamo una troupe navigata con vent’anni di esperienza alle spalle, ma questo che significa? Puoi spostare una montagna, anche senza avere l’esperienza che ti dice che basta alzare una leva per farlo; a volte vale molto di più la forza di un gruppo e la sua volontà di spostarla. E’ stata una combinazione un po’ rara, come quando da bambino giochi al piccolo chimico e non sai bene cosa ne possa uscire. Nel caso del set, credo sia stata un’alchimia vincente, non è detto che per questo sia ripetibile. Tutto sommato, l’effetto colonia, l’imprevedibilità di lavorare con persone sconosciute e inesperte, persone che hanno sempre creduto nel progetto e con le quali ho condiviso anche la domenica, sono quegli elementi che hanno dato vita a quest’alchimia particolare. A livello prettamente professionale, a posteriori, potrei elencare errori miei, errori loro, ma non avrebbe senso; e questo perché sulla bilancia vanno messi tutti gli aspetti costitutivi di quest’esperienza, che nel suo insieme non può che essere positiva. Una volta di più ho capito che le cose si fanno col piacere di farle, malgrado i momenti terribili e impegnativi che anche noi abbiamo vissuto.

Perchè si è deciso di girare in digitale e questo cos’ha comportato? Quali le differenze tra un film girato in digitale e uno in pellicola?
Roberto Cimatti: Sono partito sprovveduto e non posso dire di essere arrivato consapevole. Tutt’ora, quando Giorgio mi racconta i risultati che continuiamo ad avere ai festival, non riesco a non essere stupito. Non “sento” dove siamo arrivati, perché non è ancora finita. Siamo partiti senza soldi e questo perché non c’era sovvenzione statale: il film nasce come un’opera più che mai indipendente, avente cioè due case di produzione e noi come collaboratori esterni. Fin dall’inizio io e Giorgio parlavamo di girare il film in digitale e passarlo poi in pellicola. Nella storia del cinema ci sono esempi illustri di autori che hanno scelto di fare un film fuori dai canoni, primo tra tutti è Lars Von Trier ad esempio con “Le Onde del Destino”. Forti di questo, abbiamo voluto confrontarci con un qualcosa che fosse alla nostra misura produttiva, che non costasse molto, che permettesse a Giorgio di girare e rivedere il girato per capire se il film poteva essere trasposto in pellicola. Se fossimo partiti trovando i 30-35.000 metri di pellicola, quello che mediamente serve per girare un film, con buona probabilità non ci saremmo potuti permettere null’altro (penso alla messinscena…). Inoltre, questo mezzo facilita la naturalezza delle persone che, non essendo attori, di fronte a mezzi più “pesanti” avrebbero potuto provare imbarazzo. Aggiungo a questo il fatto che, per fare un documentario, è necessario girare più materiale possibile ad un basso costo: e se con il digitale per un’ora di riprese la spesa è di quattro euro per un nastro, con la pellicola parliamo almeno di 300-400 €. Pensare di sostituire i 105 nastri, del nostro girato, con la pellicola risulterebbe economicamente insostenibile. Ci tengo a sottolineare che il film ha un carattere documentaristico, ma non è un documentario. Abbiamo avuto una grande quantità di attori non professionisti ed eravamo consapevoli che non si poteva contare sul “buona la prima”. Il difficile compito in un film come il nostro, che si trova al confine, in una linea sottile, tra il documentario e la fiction, è quello di trasporre un senso di verosimiglianza in un discorso drammaturgico: devi narrare la storia in modo verosimile, in quanto chi guarda ci deve credere, ma non come se guardasse un documentario. Il pregio del film è forse quello di essere in un perenne equilibrio su questa linea, non dando mai allo spettatore la certezza né in un senso né nell’altro. Diciamo quindi che, consapevole di quelle che sono tutte le nuove tecnologie (Arrilaser che ti permette di fare il Film Recording, di passare cioè da un nastro ad una pellicola) a vantaggio del digitale, abbiamo deciso di tentare e man mano capire quale fosse il modo per raggiungere il risultato migliore possibile.
Prima del film, così, io e Andrea ci siamo occupati di fare test comparati su diverse camere, per togliere così il maggior numero di variabili incontrollate possibili.

Una fotografia del luogo…
Roberto Cimatti: Volendo evitare quello che io chiamo l’effetto news, ossia il tipico materiale da tg, abbiamo cercato di lavorare sui contrasti, attingendo molto da stimoli quali, ad esempio, un libro di fotografie in bianco e nero su Val Maira, per trovare una fotografia che fosse appropriata, non estranea al luogo. Seguendo la linea di confine di cui parlavo prima, ho evitato una fotografia troppo effettata, non troppo cinematografica ma neanche troppo da documentario. Ho cercato di mantenere il sapore degli ambienti, e laddove fosse possibile anche la loro luce naturale. E’ stato importante utilizzare una luce che, per evitare l’effetto news, non provenisse mai dalla macchina. Negli ambienti in cui ci siamo trovati a girare si può dire che l’illuminazione principale derivava dalle finestre e comunque le luci erano soprattutto semplici, utili al luogo (una lampadina centrale senza nulla attorno). Ho cercato di non stravolgere questo senso del luogo, evitando le luci non necessarie e piuttosto rafforzando quelle che già c’erano. Sono stato poi attento a posizionare la macchina da presa in modo tale che la luce lavorasse di taglio e quindi non arrivasse mai di piatto. Le telecamere, a volte, proprio per sconfiggere quest’effetto della news, è utile farle lavorare attraverso un uso dei piani, capace di dare un senso prospettico, lavorando quindi sui volumi della luce, sulla loro alternanza e la conseguente percezione che l’occhio ha di essi. Erano gli ambienti stessi a richiamare questa chiave di luce. Significativo in modo particolare è stato il film “La Neve Cade sui Cedri”: film che ho ammirato e più sere, in tempi diversi, ho sentito l’esigenza di condividere con gli altri in colonia. E’ questo un film molto sentito dal punto di vista dei sentimenti, della comunità… niente a che vedere con “Luserna”, ma nella forza del luogo, della neve, per come girare certe cose, un po’ di richiami li ho sentiti. E’ come se noi, tutti insieme, avessimo creato diversi fatti sulla stessa storia e così avessimo contribuito, ognun per sé, a dare un risvolto diverso alla storia.

I colori del film…
Roberto Cimatti: Fin dall’inizio si sapeva che il film avrebbe avuto delle situazioni collocate in un senso stagionale. Ne “Il Vento fa il suo Giro” la storia della famiglia Heraud si svolge in quattro stagioni: inverno, primavera, estate e autunno con la loro dipartita. E in base a questi diversi momenti cambia anche il nostro senso percettivo. Associamo ad una temperatura fredda contrasti più marcati, al caldo, invece, la foschia, le ombre più illuminate e meno fredde, per poi passare ad una situazione di umido più autunnale. Se però da sceneggiatura le scene presentavano un certo ordine, bisogna dire che in sede di montaggio le cose sono state un po’ modificate. Se quindi le scene erano state girate in queste chiavi di caldo, freddo e umido, secondo le stagioni, il fatto di cambiare l’ordine di alcune di queste, ha leggermente interferito in questo senso. E’ chiaro che Giorgio non ha stravolto l’ordine originario, ma per esempio alcuni interni, che erano stati pensati per l’estate, potevano poi essere spostati nel periodo autunnale. Al di là di questi tre momenti, il film segue una chiave di lettura a livello drammaturgico. Da una riluttanza iniziale del paese nei confronti di Philippe, si passa ad un momento di “disgelo”, caratterizzato da un’esplosione di colori e da una certa vivacità, per poi arrivare ad un periodo autunnale bigio, piovoso, che richiama una certa chiusura.

La Color Correction: qual è stato il suo ruolo nel film?
Roberto Cimatti: Voglio risponderti con un esempio. Immagina di trovarti di fronte ad un quadro antico. Tramite analisi approfondite ci si accorge che sotto ai colori di superficie esistono delle tracce, volti diversi poi modificati. Volendo fare un’analogia, per me, il lavoro della correzione colore è come reinterpretare ciò che esiste già in un quadro, che tu hai iniziato in un modo, e col tempo senti invece di dover modificare. Nel momento delle riprese è come se io facessi uso di una tavolozza di colori, dove ho la possibilità di creare varie combinazioni; nella correzione colore, non stravolgo tutto, ma aggiungo delle sfumature che prima non c’erano, per far sì che i colori di un singolo quadro siano giusti in funzione dell’accostamento ad altri quadri, una sequenza di scene. Posso dire, quindi, che in alcuni casi mi è piaciuto lavorare nei contrasti, nell’abbassare certi toni, nell’adeguare la scala tonale. E’stato un lavoro di precisione, grazie a mezzi tecnologici non indifferenti, che ha richiesto 12 giorni di lavoro, affiancato da un colorist, Alessandro, che mi ha aiutato, e che ha permesso di mettere mano su quei pochi casi che presentavano un equilibrio colorimetrico leggermente diverso. Questo ha permesso infine di riarmonizzare il tutto, riportando, come dicevo prima, alle stagioni le loro caratteristiche.

La postproduzione di un film in digitale…
Roberto Cimatti: Anni fa, si girava solo in pellicola, quindi con un sistema analogico. Alla fine delle riprese il negativo veniva sviluppato e, tramite copie di lavoro, si montava sui piatti del montaggio, tagliando poi i pezzetti di negativo che corrispondevano alle scene scelte dal montatore. Dal negativo originale quindi si tiravano le copie, che erano utilizzate per la distribuzione nei cinema. Per quanto riguarda il digitale, invece, hai un nastro che devi convertire in un secondo momento in pellicola, essendo questo l’unico supporto per lo più utilizzato nelle sale per la proiezione. Il montaggio avviene tramite un computer che lavora con dei file e, una volta completato, si scarica in un hardisk tutto il film montato. L’hardisk viene portato in un laboratorio e questo file viene convertito in un negativo. Nel nostro caso abbiamo preparato due minuti di girato, senza correzione colore, delle inquadrature più difficili (quelle leggermente sovraesposte e quelle un po’ sottoesposte), e li abbiamo mandati in diversi laboratori in giro per l’Europa per fare dei test. Ci sono tornate tre bobine in pellicola e le abbiamo guardate una dopo l’altra, ripetutamente. Dopo varie valutazioni (dopo la correzione colore), abbiamo optato per la Polonia. Ero già stupefatto del risultato, solo pensando che avevamo girato con una macchina da 3.500 €. Con l’hardisk contenente file con estensione .tiff (ossia materiale meno compresso possibile, che fa sì che ogni “fotogramma” sia in estensione .tiff, cioè una vera e propria fotografia), siamo andati a Varsavia, dove con un apparecchio chiamato Arrilaser, hanno tramutato ogni fotografia digitale in un’immagine analogica (Film Recording), su un supporto di pellicola, nel nostro caso, un negativo. Di lì abbiamo tirato le varie copie, in positivo, per la distribuzione. A confronto di tutto quello che questo lavoro ha comportato, la Color Correction è stata una passeggiata. Se il procedimento analogico classico, in cent’anni di cinema, è stato perfezionato, in questi anni si assiste ad un doppio binario, dove si sta cercando di mettere insieme, attraverso la stessa strada, due concetti diversi: quello digitale in un sistema tradizionale (visto che la distribuzione è ancora in pellicola). La ripresa, un po’ alla volta, sta dando sempre più spazio al digitale, già da tempo per il montaggio e la terza fase, col tempo, non potrà far altro che prendere anche lei quella strada. Ma in una situazione in cui coesistono queste due diverse tipologie è facile che ci siano, di conseguenza, una serie di variabili incontrollate.

A posteriori, quali pensieri ti raggiungono al ricordo di quest’esperienza? Cosa rimane?
Roberto Cimatti: L’aspetto che ho apprezzato di più, al di là del risultato del film, o meglio quello che per me ha avuto più valore, è stato “l’effetto colonia”. Quel senso di coesione che faceva sì che, ad esempio, un litigio con una persona non potesse durare più di un giorno. Questo è un pregio che deve essere considerato, proprio perché in altri film è impensabile trovarlo.

30/07/2007