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Intervista con Marco Tullio Giordana,
regista del "La Meglio Gioventù"


Intervista con Marco Tullio Giordana, regista del
Una scena del film "La Meglio Gioventù"
… Angelo Barbagallo mi propose La meglio gioventù un paio d’anni fa. Avevo già lavorato con Sandro Petraglia e Stefano Rulli alla sceneggiatura di "Pasolini un Delitto Italiano" e sapevo che si trattava di un progetto interessante. Fin dalle prime pagine ne fui conquistato. L’ho sempre pensato come un unico corpus, un solo film; la suddivisione in puntate la considero puramente accidentale. Allo stesso tempo questa scansione consente una durata che il cinema non può offrire: sei ore a disposizione, un tempo infinito, romanzesco, che permette di seguire tanti personaggi e storie parallele, consente di dilatare quello che in un film siamo costretti a eludere, a sintetizzare. Il nostro committente era la RAI, la televisione pubblica italiana, che voleva raccontare un pezzo importante della nostra storia, sfida che sarebbe stato sbagliato non raccogliere. Ci chiedeva di lavorare non su stereotipi ma al contrario di marcare un punto di vista originale, totalmente diverso dalle convenzioni del prodotto seriale, uno dei rari casi in cui si voleva fare davvero "servizio pubblico". La notevole dimensione produttiva, garantita dalla serietà di un produttore come Angelo Barbagallo, e la piena libertà nel formare il cast e scegliere i collaboratori mi hanno convinto ad accettare.
Il cinema italiano ha raccontato spesso saghe familiari, basti pensare a "La Terra Trema" o a "Rocco e i Suoi Fratelli" e a La Caduta degli Dei" di Luchino Visconti, a "I Pugni in Tasca" di Marco Bellocchio, a "La Famiglia" di Ettore Scola. Più recentemente anche Gianni Amelio ha esplorato in "Così Ridevano" il tema famigliare, anche "I Cento passi", se vogliamo, tratta il conflitto interno a una famiglia e il rapporto amore/odio che lacera i suoi componenti. Ne "La Meglio Gioventù" c’è una scena - quella di Matteo che torna in famiglia la notte di Capodanno - che è addirittura il calco di una scena analoga in cui Simone (Renato Salvatori) torna a casa in "Rocco e i Suoi Fratelli". Quand’ero ragazzo amavo molto i film di Visconti. Ero un po’ in controtendenza: negli anni ’70 i miei amici cinèphiles lo consideravano poco ortodosso. Rossellini era il modello, Visconti sembrava un rudere ingombrante. A dire la verità amavo entrambi, non ho mai capito questi partiti, il bello del Cinema è che ti
permette di vedere e amare cose molto diverse, anche antitetiche fra loro: il Cinema non ha regole - dice Godard - per questo la gente lo ama ancora! Dunque Visconti ma anche Rossellini. Ne "La Meglio Gioventù" c’è un eco di entrambi. Naturalmente è molto diverso da quei modelli, nè potrebbe essere altrimenti. Ma, un po’ come i pittori della Transavanguardia - Chia, Clemente, Cucchi - che hanno cercato di reiventare un rapporto con la pittura classica, così - sia pure in modo molto indiretto - c’è un sentimento in questo film che ricorda quei film. Non si tratta di rifarne la maniera, non c’è nessuna citazione evidente o se c’è è molto deformata e nascosta.
Da un po’ di anni a questa parte mi accorgo d’identificarmi in tutti i personaggi di un film. Un tempo mi veniva naturale sposare un punto di vista, prendere parte, tenere per
qualcuno. Ora mi accorgo di guardare a tutti i personaggi con una stessa voglia di capire, perfino i più lontani, perfino quelli odiosi. Ce ne sono che mi piacciono e altri meno (non i personaggi, ma i caratteri che rappresentano), però mi lascio affascinare dalle loro diversità. Per esempio: Nicola e Matteo, i due fratelli protagonisti de "La Meglio Gioventù", hanno uno stesso background famigliare, la stessa formazione, stessi studi e amicizie (c’è solo un anno di differenza), eppure non si potrebbe immaginarli più diversi. C’è qualcosa dentro di loro che fa rima: una stessa sensibilità, un simile amore per la cultura. In Matteo questa sensibilità assume valenze patologiche, gli impedisce di crescere, Nicola, riesce invece a dominare i propri fantasmi, li elabora. Anche se inciampa pure lui nella disillusione, non ne rimane in ostaggio, cerca di trasformarla in esperienza. Con quale dei due m’identifico? Con entrambi. Sono stato un ragazzo tormentato, negativo, quasi suicidale, come Matteo, così come sono stato volitivo, sognatore e allegro come Nicola. Matteo è pieno di talenti, ama i libri, la poesia, è curioso delle persone, ma non ha il coraggio di andare a fondo di questi talenti, di farne scelta di vita. Diventa poliziotto per non dover decidere più nulla. Altri decideranno per lui, dovrà solo obbedire agli ordini. Caserma, uniforme (come per "disegnarsi" uguale agli altri) come regola e ordine nel caos che non può sopportare. Al contrario Nicola riesce a trasformare i suoi studi (all’inizio sembra un medico molto poco convinto della sua vocazione) in una ragione di vita. Se viene sfiorato dalla fortuna ci salta in groppa, non ha paura di cadere e farsi male. In Matteo ogni pulsione, anche la più generosa, marcisce perché non ha il coraggio di assecondarla. Matteo è tante cose non compiute, un artista mancato (lo vediamo all’inizio appassionato di fotografia, finirà a fotografare i cadaveri per la polizia scientifica). S’innamora di Giorgia e la perde per timidezza, per paura di buttarsi in una storia che s’annuncia difficile. Lo stesso con Mirella, malgrado gli si presenti come una creatura solare e innamorata. Nicola non ha paura delle donne, s’innamora in continuazione, "è innamorato dell’idea di essere innamorato" come dice Jules di Jim nel film di Truffat (del quale ho utilizzato uno dei temi musicali scritti dal grande Georges Delerue). Nicola s’innamora delle persone, degli amici, delle avventure intellettuali, pronto a fare la valigia e partire. Le donne sono per lui uno strumento di conoscenza, si mette in gioco con loro, la loro emancipazione non lo disorienta. Una qualità che conserva anche negli anni della maturità e non solo allo scopo di sedurle. Nicola si sente simile, vicino, dalla loro parte. In lui c’è qualcosa di femminile.
Il linguaggio serve per comunicare ma anche per nascondere, è la prima forma di alienazione. In ogni relazione c’è una parte di non detto, di sommerso, le parole suonano soprattutto come intenzioni. Tanto più nelle relazioni famigliari, investite dal massimo di affettività ma anche dal massimo di contrasto, di aggressività dissimulata. Non ne faccio un discorso psicanalitico quanto piuttosto fenomenologico; come regista sono indotto a occuparmi più dei modi in cui questo avviene che del perchè. Il perchè forse è più importante per gli attori, che devono costruirsi una motivazione. Un regista è più preoccupato di riprodurre con la maggior esattezza e naturalezza possibili i modi in cui le persone si scambiano segni o li tacciono. In famiglia questi modi si esasperano; in tutte le relazioni famigliari c’è qualcosa di intimo, imbarazzante, vergognoso. Ci proteggiamo dai nostri famigliari - dai genitori, dai fratelli, dai figli - perchè sappiamo che questo amore deve porsi limiti, censure. Anzi: rendersi addirittura inagibile legato com’è al tabù sul quale - per ragioni sostanzialmente patrimoniali - si fondano tutte le civiltà moderne: l’incesto. La famiglia è dunque il luogo degli amori impossibili, tra i suoi membri aleggia fortissima la rimozione dell’eros. Per questo i sentimenti in gioco sono così violenti, eccessivi, fatali.
Non sempre è necessario spiegare tutto. Ad esempio: di Giulia - la donna di cui Nicola s’innamora e dalla quale avrà una figlia - non viene raccontato il percorso che la porterà a diventare una terrorista. Si può pensare sia stato quello comune a molti: un sentimento d’impotenza, di blocco, di assoluta inospitalità e sordità della politica di allora alle loro illusioni. La solitudine, la sensazione di non appartenenza - non li sto giustificando naturalmente -, so che quella scelta in molti fu generata da un dolore così forte da volersene liberare infliggendolo agli altri. Oggi ci interessa meno conoscerlo, tanto sembra remoto.
Non sarebbe stato così dieci o vent’anni fa quando eravamo avidi di sapere il perché e il per come dato che il terrorismo era attivo, esisteva, non era il fenomeno residuale e
fortunatamente isolato di oggi. Io non volevo raccontare la storia del terrorismo ma la storia di una terrorista, quella, lei: Giulia. A me interessano le persone nelle quali improvvisamente si apre una falla. Giulia è forse, insieme a Matteo, il personaggio pìù tragico del film. Anche lei come Matteo dice addio a tutto quello che la vita potrebbe offrirle. Addio alla musica, all’amore, alla figlia, al compagno, continua ad amputarsi in una spirale totalmente autolesionista, quasi da tossicomane. Vi sono epoche in cui queste implosioni non hanno nessuna contaminazione sociale, ci si ritrova soli, folli, derelitti e basta. In altre epoche invece assumono il connotato di movimenti collettivi, sono esperienze che si fanno in branco ed è più difficile capirne la sostanziale patologia e uscirne fuori.
Comincio a capire un film durante i provini con gli attori. Per questo ne faccio tanti. Do pochissime indicazioni sul ruolo, preferisco che mi offrano prima la "loro" interpretazione, il sentimento che hanno provato leggendo la parte. Grazie alle loro improvvisazioni spesso mi rivelano chiavi nuove per i personaggi, imprevedibili. Per me è molto importante la formazione del cast, occupa quasi tutto il tempo delle preparazione. Ho bisogno di scegliere anche l’ultima delle comparse, sapere che tutti saranno intonati uguale, come il suono di un’orchestra. Alcuni attori coi quali avevo già lavorato li ho scelti abbastanza rapidamente.
Ero sicuro per esempio che Luigi Lo Cascio avrebbe interpretato con finezza la parte di Nicola, sembrava scritta per lui. E’ uno dei pochi attori italiani che può interpretare il ruolo di un intellettuale senza renderlo pedante o inverosimile. Capace di dar vita a figure e psicologie molto diverse, mi aveva dato prova di indiscutibile talento ne I cento passi ed eravamo contenti di lavorare nuovamente insieme.
Per altri è stata invece una scommessa. Avevo visto Alessio Boni (Matteo) in uno sceneggiato televisivo, avevo sentito che c’era stoffa buona. Sia Boni che Lo Cascio, Fabrizio Gifuni (Carlo, l’economista) e Claudio Gioè (l’operaio della Fiat) provengono dall’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, hanno studiato insieme. Lo sapevo e mi piaceva molto che la loro amicizia fosse reale, non solo formale. Alessio Boni fece un provino assai convincente. Restituiva in pieno la fragilità di Matteo mascherata dai continui scatti aggressivi, si sentiva sotto la scorza la dolcezza di una natura mite, piena di dubbi su sè stesso.
Fabrizio Gifuni è stato coraggioso ad accettare un ruolo che nel corso del film si è molto ampliato ma che al momento del contratto contava poche pose. E’ un attore molto dotato, che ne "La Meglio Gioventù" ha potuto esprimere una vis comica che gli è molto congeniale nella vita ma raramente gli viene richiesta sullo schermo. Lo stesso posso dire di Claudio Gioé che in una prima versione della sceneggiatura scompariva addirittura alla seconda puntata. Il suo personaggio ha assunto una funzione molto importante: raccontare il perdurare nel tempo di un’amicizia interclassista, sentimento che é stato possibile solo in quegli anni e che ora non sembra più praticabile incasellati come siamo nel nostro gregge sociale, nelle professioni, nei consumi.
Avevo ammirato Sonia Bergamasco ne "L’Amore Probabilmente" di Giuseppe Bertolucci, mi aveva molto colpito. Anche lei proviene dal teatro, ha lavorato a lungo con Carmelo Bene. Sapendo che era diplomata in pianoforte ho voluto attribuire questo talento anche a Giulia, il suo personaggio. Ho potuto così girare in presa diretta anche le scene in cui doveva suonare, anzichè far finta, cosa insopportabile per me che ho studiato musica da ragazzo. Questo amore per la musica - che richiede fatica, dedizione, spesa di sè - è un connotato importante di Giulia. La censura di questa passione spiega molto bene un suo tratto autopunitivo.
Jasmine Trinca l’avevo vista ne "La Stanza del Figlio! di Moretti in cui era ancora bambina. Ho pensato che avrebbe potuto interpretare il personaggio di Giorgia esattamente come lo immaginavo: una fanciulla cioè che avesse tutte le caratteristiche della "normalità" a portata di mano, in bilico sull’orlo dell’abisso. Dovessi scegliere un personaggio del film in cui identificarmi, sceglierei lei. Le manca poco per essere come tutti gli altri, forse solo affetto o attenzione. Invece l’hanno allontanata e rinchiusa in una clinica dove la curano con l’elettrochoc. E’ questo a fare di lei una "matta". Tutti noi sfioriamo continuamente il disagio, la perdita di controllo, la follia. Sarebbe bastato non incappare in quelle strutture manicomiali che furono poi abolite da Franco Basaglia e che ora si vogliono ripristinare. Jasmine ha trovato la sua strada da sola, ha inventato lei un equilibrio fra assenza e allarme, aggressività e richiesta d’aiuto. Penso che "dirigere" gli attori sia qualcosa di molto delicato. Intanto ogni attore è diverso, non c’è un metodo buono per tutti. Qualcuno va assecondato, altri hanno bisogno di sentirsi in pugno al regista, quasi ostaggi. Altri ancora hanno bisogno di sicurezze, altri di continue docce scozzesi. Sono strani gli attori, bisogna sempre ricordarsi che sono i più esposti in un film, sono il film, quelli che lo rischiano più di tutti. Non sono ossessionato dal controllo assoluto sugli attori, non lo cerco, non lo voglio. Voglio che esistano sullo schermo, che siano vivi, che trasmettano le emozioni che provano veramente, non che simulino le mie istruzioni. Per ottenere questo risultato posso sembrare ancora più maniacale di quelli che vogliono che tutto sia fatto come dicono loro ma è una maniacalità diversa. Non sono in grado di teorizzare molto il mio lavoro, so che è un lavoro con gli attori, non sugli attori.

Avevo visto Maya Sansa ne "La Balia" di Marco Bellocchio e per quanto quel personaggio fosse completamente diverso da quello di Mirella ho avuto la sensazione che avrebbe trasferito in quel ruolo tutta la sua forza e solarità. Era un ruolo difficile: una ragazza che subisce una grande violenza da parte di un uomo che pur amandola le si nega. Cercavo un’attrice che non creasse l’equivoco della vittima, di quella che si piange addosso.
Andrea Tidona aveva lavorato con me ne "I Cento Passi". Fu lui stesso a proporsi per la parte del padre, io in realtà l’avevo cercato per un’altro ruolo. Dopo il provino mi sono chiesto come avevo fatto a non pensarci prima. Anche Tidona viene dal teatro; ho una certa predilezione per gli attori che calcano il palcoscenico, mi accorgo di aver più facilità a lavorare con loro, anche se ho lavorato in teatro in una sola occasione. Il teatro tempra in modo diverso dal cinema, espone al contatto diretto con gli spettatori, costringe a essere sempre presenti a sè stessi e - una volta passata la "prima" col regista in palco a controllare - abitua a sapersela cavare anche da soli. Con Adriana Asti - attrice di grandissima esperienza - ha lavorato con tutti i nostri più grandi registi: da Visconti a De Sica, Pasolini, Bertolucci, Ronconi - avevo già avuto un fortunato incontro all’epoca di "Pasolini, un Delitto Italiano". Ero sicuro che avrebbe illuminato il personaggio di Adriana con una vena di surreale follia lombarda, la stessa di Gadda per intenderci. Oltretutto è una persona molto divertente, intelligente, di umiltà e pazienza incredibili considerando il rango e la bravura. Mi piaceva il fatto che la madre fosse milanese e il padre romano. Mi piaceva che in famiglia vi fosse una miscela di geografie, mentalità, tradizioni, e che i genitori si accapigliassero in continuazione come se la litigiosità fosse il modo paradossale di dimostrare il proprio affetto.
"La Meglio Gioventù si conclude un po’ come una gara di staffetta. Nicola riesce a passare il testimone alla generazione successiva. Altri non riescono a farlo, forse non hanno nemmeno un testimone da trasmettere e si fermano prima, sfiancati. Il film racconta tutto questo. Non è un discorso interno alle ideologie, non stiamo parlando della sinistra italiana. E’ un discorso più generale che riguarda l’Italia nel suo complesso, l’occidente, la sensazione di essere agli sgoccioli di un’intera civiltà. Non crediamo più alle salvezze collettive ma è chiaro l’appello alla coscienza individuale, alle scelte che ognuno sa di dover fare. Non mi sembra pessimistico liquidare l’illusione delle "magnifiche sorti e progressive", al contrario mi sembra un passo avanti rispetto al plebiscito continuamente richiesto, all’adesione incondizionata ai mitologemi di turno. I personaggi de "La Meglio Gioventù" mi hanno affascinato perché sono totalmente diversi non da come sono gli italiani ma da come vengono rappresentati gli italiani, in particolar modo dalla televisione. Che cerca di eludere tutte le loro preoccupazioni, di anestetizzarne l’ansia, di convincerli a una sorta di consumo
bulimico (e con quali soldi? viene da chiedere), di stordimento, casomai a qualcuno venisse la tentazione di pensare.

14/02/2007